Una famiglia

Un ruolo davvero impossibile per la povera Micaela

Il regista di Una famiglia (all'opera seconda dopo Più buio di mezzanotte) voleva affrontare in maniera non consolatoria una vicenda che ha a che fare con la compravendita di neonati, perché la protagonista è una donna, soggiogata dal marito francese (Patrick Bruel, cantante e attore celeberrimo in Francia), che viene da costui continuamente messa incinta per partorire bambini che lei non vedrà mai, perché vengono subito venduti a coppie che li hanno prenotati. Non si tratta però di un film a tesi. Il registro scelto dovrebbe essere quello del melodramma, nobilitato da uno stile invadente fin dalle prime scene: macchina a mano enfatica, musiche che comunicano platealmente una tensione in realtà assente, dettagli di mani, unghie, gocciolii, che dovrebbero estraniare lo spettatore o forse intensificare le emozioni. Purtroppo il risultato non è né freddo né caldo, né realistico né davvero melodrammatico, perché ogni scelta è tutta di testa, e oltretutto messa in scena secondo ogni stereotipo del "cinema d'autore". Le scene clou poi affossano il film: un parto in jump cut con suoni amplificati che coprono le urla, un momento di violenza cui segue un virtuosistico piano-sequenza di 360 gradi nel cortile della casa. A una prima parte più statica ne segue una seconda in cui si affastellano eventi; ma dall'inizio tutti i personaggi sono comunque cupi, agitati, ansimanti. La parte migliore è forse quella in cui compare una coppia gay che vuole adottare uno dei bambini, anche se pure lì c'è una brutta scena di ballo. La ricerca del pezzo di bravura registico va oltretutto a scapito della direzione degli attori, quasi tutti "stonati", compresa purtroppo la protagonista Micaela Ramazzotti, alle prese con un ruolo impossibile.
Da La Repubblica, 5 settembre 2017


di Emiliano Morreale, 5 settembre 2017