Howard è il carismatico fondatore di una grossa agenzia pubblicitaria newyorkese. Con un po’ di spavalderia spiega ai colleghi la sua filosofia per raggiungere i clienti: “ Amore, tempo e morte. Queste tre cose mettono in contatto ogni singolo essere umano sulla Terra: desideriamo l’Amore, vorremmo avere più Tempo, temiamo la Morte.”
Pur di vendere Howard scomoda presenze importanti, ma in realtà non sa di cosa parla. Poco dopo perde la figlia di sei anni per un tumore al cervello; rifiuta la realtà, cade in depressione, si separa dalla moglie, comincia a ignorare il lavoro insieme a tutto il resto. Nel suo isolamento ha due strane abitudini: costruisce per giorni giganteschi domini nel suo ufficio che in pochi attimi distrugge; spedisce lettere di sfida ad Amore, Tempo e Morte.
Passano due anni, l’agenzia che dipendeva essenzialmente sul suo talento, perde clienti; i giorni sono contati ma si profila l’opportunità di essere acquisiti a condizioni vantaggiose. C’è però un problema: Howard, socio di maggioranza, rifiuta persino di prendere in considerazione la cessione. I suoi tre amici, Whit, Claire e Simon, cointeressati alla società ma animati anche da genuini sentimenti, sono alle corde; nel disperato tentativo di riportarlo alla realtà ingaggiano tre attori squattrinati che impersoneranno per lui le sue ossessioni: Amore, Tempo e Morte.
Impianto facilmente riconducibile a Canto di Natale di Dickens. Significativa la trovata scenografica del domino, metafora della catastrofica non linearità della vita: un piccolo tocco e tutto ciò che abbiamo costruito – ciò che in qualche modo siamo – viene giù a cascata. Cast di prim’ordine in buona forma, da Will Smith (Howard) a Helen Mirren (Morte), passando per Edward Northon (Whit), Kate Winslet (Claire) e Keira Knightley (Amore, la caratterizzazione forse meno riuscita.) Sviluppo della storia ordinato, con qualche passaggio troppo sbrigativo; alcune furbizie gratuite nei dialoghi, con frasi a effetto di apparente alto significato filosofico ma in realtà un po’ vuote; qualche addobbo natalizio fuori luogo.
Lieto fine, o quasi. Howard inizia a frequentare una comunità terapeutica di genitori che hanno perso i figli, dove incontra Madaleine anche lei segnata dalla stessa esperienza; ritrova (un poco di) se stesso, affronta il lutto e firma con sollievo di tutti la cessione della società.
La vigilia di Natale torna dalla moglie. Il giorno del divorzio le aveva scritto: se solo potessimo tornare di nuovo estranei. Morte e resurrezione. Ci sonofatti tragici, o semplicemente gravi, che senza colpa di nessuno rendono impossibile a due persone che si vogliono bene di vedersi ancora, perché il loro legame richiama il dolore. L’altro è diventato indissolubile da quel dolore: pur nella sua innocenza, pur essendo lui stesso vittima, l’altro è quel dolore o quell’assenza. Howard per poter tornare dalla moglie – per risorgere – ha avuto bisogno di Tempo, di rivedere Amore e naturalmente di incontrare Morte.
“ Questi nostri attori erano spiriti, e tutti si sono dissolti nell’aria, nell’aria sottile come loro ” conclude Shakespeare nella Tempesta.Cala il sipario, gli attori hanno ben rappresentato la loro parte, per Howard ma anche per quelli che li hanno ingaggiati. Whit, Claire e Simon scoprono anche loro di avere ognuno qualcosa di personale in sospeso con Amore, Tempo e Morte. Avranno risposte a domande che non hanno fatto, e da quel momento guarderanno se stessi con occhi diversi.
Secondo Morte, anche in presenza dell’evento più tragico e devastante esiste – resiste – una bellezza collaterale che consente di continuare. Un senso residuo grazie al quale la vita – ciò che resta – mantiene un sentore di salvezza. Cosa sia questa Collateral Beauty il film prova a spiegarcelo. Sembrerebbe un contatto universale, un respiro cosmico che ci unisce tutti oltre le circostanze e il tempo. Forse, più concreto – azzardiamo noi – il respiro di una persona cara accanto, magari davanti al mare; e concentrato in questo momento il nostro debole spirito sembra sollevarsi. Oppure, in negativo, qualunque cosa bella che l’ottenebrazione del dolore impedisce di vedere e che riappare rinascendo, e non va cercata in giro perché già la portiamo dentro.
Quest’ineffabile bellezza è il concetto centrale del film, ma abbiamo il sospetto che gli stessi autori non ne sappiano più di noi. Nell’ulteriore dubbio da Chi o da dove provenga, l’idea sembra buona comunque; e anche senza sapere bene cosa sia, quando in sala si accendono le luci e torniamo in strada verso casa, alla Bellezza Collaterale cominciamo a crederci. Sarà perché ci hanno raccontato una buona storia; sarà perché non conosciamo alternative migliori al nostro piccolo o grande dolore.
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