Tu chiamami Peter

Roberto Nepoti

Tornato in gran voga nelle ultime stagioni, il film biografico tende regolarmente all’agiografia: vedi i recenti “The Aviator” o “Ray”, che raccontano calvari di personalità tormentate ma sono anche monumenti alla loro memoria. Peter Sellers, genio del cinema comico nella vita pubblica, nemico di se stesso nel privato, offriva al biopic un materiale ricco quanto delicato; e Tu chiamami Peter di Stephen Hopkins si sforza onestamente di mettere in luce, oltre al carisma dell’attore, le sue zone d’ombra, la sua personalità caotica e disturbata, la dipendenza dalla cocaina, i capricci e le collere odiose di un uomo incapace d’amare le splendide donne che lo circondavano.
L’ipotesi è che sotto la scorza dell’irresistibile interprete di “Lolita” e della “Pantera rosa”, dl “Hollywood Party” e del “Dottor Stranamore” lavorasse una grave forma di schizofrenia, un’immedesimazione anomala nei personaggi tale da imprigionarlo in un immagine multiforme di se stesso, con gravi conseguenze per il suo equilibrio emotivo. Hopkins, insomma, si sforza dl spezzare l’icona del comico per meglio mostrare l’essere umano, la personalità contraddittoria e infelice latente sotto la maschera. Peccato che non abbia il coraggio di portare l’intenzione fino in fondo; facendo anche scelte di linguaggio meno convenzionali, all’altezza delle potenzialità del soggetto e più consone allo stile eccentrico, genialmente schizzato dell’attore. Così il film si mantiene in una zona di confine. Alterna le sequenze della vita privata di Sellers, dove si rivelano i suoi demoni interiori, con brani assai meno riusciti della biografia ufficiale: dalla radio alla consacrazione definitiva nel cinema, inclusa la ricostruzione dei set dei film più celebri (Imbarazzante la presenza di Stanley Tucci nel ruolo del suo omonimo Kubrick, fino all’interpretazione di “Oltre il giardino” e alle ultime ore del protagonista.
Viene fuori, da tutto questo, la figura di Peter Sellers, attore cui sono state dedicate innumerevoli biografie su carta senza mai riuscire a imprigionarlo in una definizione ultima? Neppure il cinema centra in pieno l’obiettivo: e ciò malgrado la notevolissima interpretazione di Geoffrey Rush, Anche lui, a suo modo, trasformista come Sellers, ne riproduce gestualità e tic con una precisione assoluta: e tuttavia lo “interpreta”, anziché limitarsi a imitarlo.
Da La Repubblica del 20 agosto 2005


di Roberto Nepoti,