Irene Bignardi
La Repubblica
Due sceneggiatori come Vincenzo Cerami e Stefano Rulli hanno detto che “l’arte è evocazione, ma il cinema è sempre più tecnica”. L’osservazione calza a pennello anche per il film che Spike Lee ha portato a Venezia 1995, Clockers (ovverossia quei mercanti di droga che lavorano “around the clock”, ventiquattr’ore al giorno).
Con immagini smaglianti e una colonna sonora fracassona che sottolinea tutto due volte, Spike Lee (riservandosi come sempre un “cammeo”) ci porta nelle “case Nelson Mandela”, una zona di Brooklyn interamente popolata da gente di colore - si chiamano “project”, e corrispondono alle nostre borgate -, dove ai giardinetti si smercia crack, i ragazzini di dodici anni vengono allevati dai pusher a lavorare per loro e per campare onestamente uno deve fare cinque lavori insieme e perdere l’equilibrio nervoso.
Succede così che un boss locale viene stecchito all’uscita del suo negozio, che del delitto si autoaccusi un bravo tipo di nome Victor e che il poliziotto assegnato al caso (Harvey Keitel, affiancato da un John Turturro praticamente invisibile) non voglia assolutamente credere alla sua versione. Tanto che continua a tampinare il fratello di Victor, Strike, il quale è in effetti un individuo pericoloso (è lui che arma la mano dei ragazzini), a sua volta sotto il tiro del grande boss della droga, Rodney. Mentre la musica di Terence Blanchard incalza a decibel scatenati con i suoi ritmi rap, le pallottole esplodono ad altissimo volume e Malik Hassan Sayed, il direttore della fotografia, incendia lo schermo di rossi e di blu.
Spike Lee porta avanti la sua storia senza riuscire per un attimo solo a toccare o a emozionare. A una sapienza “grafica” e coreografica notevolissima sembra non corrispondere più, nel suo cinema, la capacità di raccontare con autentica partecipazione, e questo nonostante Clockers denunci senza mezzi termini una situazione esplosiva per cui una componente della comunità nera la corrompe e la inquina tutta.
Certo è difficile, su certi temi troppo frequentati, trovare l’equilibrio tra la realtà che si mette in scena e lo stile della finzione. Ma, nonostante la forza e l’energia di Spike Lee, il mondo di Clockers suona falso ed esteriore, recitato e programmato, anche quando fa entrare in scena le figure relativamente inedite delle donne - la madre di Victor, la mamma del ragazzino Tyrone - che si battono con tutta la loro energia contro il destino dei loro figli.
Da Irene Bignardi, Il declino dell’impero americano, Feltrinelli, Milano, 1996
di Irene Bignardi, 1996