gianmarco.diroma
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mercoledì 16 febbraio 2011
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scene crime
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"Scene crime": scena del crimine. "Do not cross": non oltrepassare. Clockers (che significa spacciatori) si muove all'interno non di una singola scena del crimine, ma all'interno di una lunga carrellata di scene del crimine (quelle dei titoli di testa) che fanno da cornice al mondo del ghetto in cui il giovane Strike vive e spaccia. C'è una linea di confine che Spike Lee chiede di oltrepassare ai suoi spettatori: una linea di confine rappresentata da quel nastro giallo con su scritto "Scene crime/ do not cross". Il perimetro definito da quel nastro è un mondo dominato dalla violenza (chi è il rapper più cattivo?), da macchie di sangue sulle strade, di esistenze spezzate dall'uso e abuso di droghe pesanti da una parte e dallo spaccio di queste ultime dall'altra.
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"Scene crime": scena del crimine. "Do not cross": non oltrepassare. Clockers (che significa spacciatori) si muove all'interno non di una singola scena del crimine, ma all'interno di una lunga carrellata di scene del crimine (quelle dei titoli di testa) che fanno da cornice al mondo del ghetto in cui il giovane Strike vive e spaccia. C'è una linea di confine che Spike Lee chiede di oltrepassare ai suoi spettatori: una linea di confine rappresentata da quel nastro giallo con su scritto "Scene crime/ do not cross". Il perimetro definito da quel nastro è un mondo dominato dalla violenza (chi è il rapper più cattivo?), da macchie di sangue sulle strade, di esistenze spezzate dall'uso e abuso di droghe pesanti da una parte e dallo spaccio di queste ultime dall'altra. Spike Lee è in grado di raccontare con grande abilità certi momenti clou del mondo dello spaccio (il gioco dei segni tra Strike e i suoi compagni/colleghi), sa dare respiro epico alla scena di un bambino che si accinge ad uccidere per la prima volta, si sofferma sul cinismo dei poliziotti, costretti ad irridere morte e cadaveri per non essere sopraffatti da un senso di orrore, e ci racconta di un mondo minato dall'Aids quando meno te lo aspetti. Spike Lee ci racconta questa storia come se fosse un testimone del ghetto, uno che il ghetto lo conosce e lo frequenta. E ce lo racconta dal di dentro (non è certo un caso che si sia ritagliato una parte proprio come curioso/testimone delle scene del crimine all'inizio ed alla fine del film). Una grande colonna sonora che rende sopportabile tanta violenza. Dialoghi al vetriolo. Una fotografia supersatura. Colori forti. E il rosso che domina incontrastato: il rosso del sangue, il rosso che Strike indossa, il rosso che Strike vomita a causa di litri e litri di bevande al cioccolato al posto di inarrestabili sigarette. Ci sono le madri sole e coraggiose: i padri che mancano o sbandano (come Victor, il fratello del protagonista, distrutto dal troppo lavoro). C'è un senso della colpa e del peccato che compare a sprazzi ma che la logica del ghetto ingoia e rigurgita sotto forma di violenza e spacconeria. Strike alla fine riuscirà a redimersi: ma quanti invece rimarranno schiavi di questo girone infernale in cui lo spreco di esistenze umane è all'ordine del giorno?
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tomdoniphon
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martedì 8 dicembre 2015
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lee-price, accoppiata perfetta
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Brookyn, primi anni ’90. Ennesimo omicidio di uno spacciatore nero. Si costituisce Victor, onesto padre di famiglia, che però l’esperto poliziotto Rocco Klein (Keitel, straordinario) non crede colpevole, concentrando le indagini sul fratello Strike, giovane clocker (spacciatore di crack).
Spike Lee adatta (con qualche variante) l’omonimo (bellissimo) romanzo di Richard Price, facendo ricorso ad una regia avvolgente, che passa con disinvoltura da uno stile classico ad uno più innovativo (si vedano ad esempio le sequenze del primo incontro tra Rocco Klein e Strike, oppure l’interrogatorio del bambino Tyrone). Lo spettatore viene così a poco a poco coinvolto in un noir corale d’altri tempi, di taglio semi-documentaristico, che vuole essere (e riesce ad essere) un grande e compiuto racconto sociale di Brooklyn e del mondo sfaccettato della comunità afroamericana: per citare lo stesso regista, il film «È rivolto agli abitanti del ghetto di New York.
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Brookyn, primi anni ’90. Ennesimo omicidio di uno spacciatore nero. Si costituisce Victor, onesto padre di famiglia, che però l’esperto poliziotto Rocco Klein (Keitel, straordinario) non crede colpevole, concentrando le indagini sul fratello Strike, giovane clocker (spacciatore di crack).
Spike Lee adatta (con qualche variante) l’omonimo (bellissimo) romanzo di Richard Price, facendo ricorso ad una regia avvolgente, che passa con disinvoltura da uno stile classico ad uno più innovativo (si vedano ad esempio le sequenze del primo incontro tra Rocco Klein e Strike, oppure l’interrogatorio del bambino Tyrone). Lo spettatore viene così a poco a poco coinvolto in un noir corale d’altri tempi, di taglio semi-documentaristico, che vuole essere (e riesce ad essere) un grande e compiuto racconto sociale di Brooklyn e del mondo sfaccettato della comunità afroamericana: per citare lo stesso regista, il film «È rivolto agli abitanti del ghetto di New York. Ho voluto tirar fuori le loro contraddizioni per far capire che nascere neri e poveri non significa necessariamente nascere gangster, spacciatori, drogati, ballerini o rapper, ma che si può perfino studiare, avere un lavoro, metter su famiglia».
Anche il “classico” conflitto tra i poliziotti e la comunità afroamericana di Brooklyn è reso in modo assai meno manicheo rispetto ad altri film del regista (si veda “Fa la cosa giusta”): il film infatti “divide equamente i personaggi negativi tra neri e bianchi”, evitando “la retorica degli “sbirri bastardi”” (Mereghetti).
Una curiosità. Nei titoli di testa scorrono fotografie di cronaca nera, scattate sui luoghi dei delitti di giovani afroamericani assassinati da altri afroamericani. In questo modo, il regista ha voluto “contestare la glorificazione della violenza che esiste ancora oggi nell'hip hop e che pervade l'intera scena gangsta. Volevo mostrare ciò che realmente avviene quando una persona viene colpita da un proiettile o ferita da una coltellata”.
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rmarci 05
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domenica 14 luglio 2019
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un film imperfetto, ma molto realitsitco e potente
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Spike Lee eredita un progetto di Martin Scorsese che, inizialmente, doveva anche dirigere, ma che poi si limitò solamente a produrre perché impegnato sul set di Casinò: il risultato è un film che risente positivamente dell’impronta lasciata dall’autore originario, soprattutto per l’estremo realismo e la violenza esplicita con cui S. Lee illustra (e condanna) lo stile di vita degli spacciatori neri dei ghetti di Brooklyn, all’insegna della cultura della droga nonché che di un certo tipo di musica rap, elementi a cui il regista attribuisce la gran parte della responsabilità riguardo alla condizione degli spacciatori, persone nate e cresciute nella criminalità e nel degrado che identificano la via del successo, oltre che la loro unica salvezza, unicamente negli stupefacenti.
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Spike Lee eredita un progetto di Martin Scorsese che, inizialmente, doveva anche dirigere, ma che poi si limitò solamente a produrre perché impegnato sul set di Casinò: il risultato è un film che risente positivamente dell’impronta lasciata dall’autore originario, soprattutto per l’estremo realismo e la violenza esplicita con cui S. Lee illustra (e condanna) lo stile di vita degli spacciatori neri dei ghetti di Brooklyn, all’insegna della cultura della droga nonché che di un certo tipo di musica rap, elementi a cui il regista attribuisce la gran parte della responsabilità riguardo alla condizione degli spacciatori, persone nate e cresciute nella criminalità e nel degrado che identificano la via del successo, oltre che la loro unica salvezza, unicamente negli stupefacenti. Il regista, proprio come Scorsese, conosce bene le realtà che racconta perché le ha viste e vissute (anche se non in prima persona), ed è per questo che guarda ai clockers con sguardo severo e disprezzante ma al contempo sensibile, domandandosi perché, apparentemente, non siano interessati ad uscire dalla situazione in cui si trovano. Come in ogni sua pellicola, poi, è immancabile una sceneggiatura essenziale e asciutta che delinea molto bene tutti i personaggi (a parte qualcuno) interpretati con professionalità da tutti gli attori. Stilisticamente è piuttosto in linea con Fa’ la cosa giusta, in particolare per la fotografia kitsch e per la commistione di diverse componenti, (dal drammatico al grottesco, intrisi di un umorismo sardonico) che però, in questo caso, non sempre risultano ben amalgamate tra loro, minando quindi l’equilibrio del film insieme ad uno sviluppo della trama leggermente confuso e prolisso. In ogni caso, Spike Lee ha centrato il suo obiettivo, con un film non privo di smagliature dal punto di vista espressivo e narrativo, ma estremamente potente, lucido e tremendamente vero, che sensibilizza lo spettatore senza però imprimersi del tutto nella sua memoria come aveva fatto, ad esempio, con Fa’ la cosa giusta.
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emanuelemarchetto
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domenica 19 marzo 2017
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"around the clock"
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Ronald Dunham, detto Strike, è un giovane clocker, ossia uno spacciatore di crack, a disposizione 24 ore su 24 (Clocker deriva da "around the clock"). Uno spacciatore viene ucciso nel quartiere. Nulla di nuovo sembra, ma Victor, cittadino rispettabile e fratello di Strike, si costituisce. Il detective Rocco Klein (Harvey Keitel), non convinto della deposizione di Victor, mette alle strette Strike cercando di farlo confessare. Così facendo lo mette in difficoltà anche col suo "datore di lavoro": uno spietato boss della droga.
Girato in 12 settimane a Brooklyn, il film è liberamente tratto dall'omonimo romanzo di Richard Price e doveva essere girato da Scorsese.
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Ronald Dunham, detto Strike, è un giovane clocker, ossia uno spacciatore di crack, a disposizione 24 ore su 24 (Clocker deriva da "around the clock"). Uno spacciatore viene ucciso nel quartiere. Nulla di nuovo sembra, ma Victor, cittadino rispettabile e fratello di Strike, si costituisce. Il detective Rocco Klein (Harvey Keitel), non convinto della deposizione di Victor, mette alle strette Strike cercando di farlo confessare. Così facendo lo mette in difficoltà anche col suo "datore di lavoro": uno spietato boss della droga.
Girato in 12 settimane a Brooklyn, il film è liberamente tratto dall'omonimo romanzo di Richard Price e doveva essere girato da Scorsese. Spike Lee prende il suo posto e impone in suo già collaudato stile dimostrando di essere maturato moltissimo. Rielaborando la sceneggiatura, il regista rende Strike il vero protagonista: uno spacciatore di sedici anni che non fa uso di droghe e gioca con i trenini elettrici, simbolo di libertà ed evasione dal quartiere. Il personaggio rappresenta perfettamente una generazione di neri ghettizzati nella New York anni '90, dove lo spaccio è sinonimo di guadagno e di emancipazione.
Scorsese: "Spike ha dimostrato la capacità unica di infondere in Clockers la sensibilità di persona che ha esperienza di prima mano del soggetto".
Lo sguardo del regista è realistico e crudo, e dimostra di conoscere e comprendere molto bene le difficoltà di vivere in certi ambienti. Di contro però critica aspramente certe aberrazioni che si creano all'interno della comunità nera: come la cultura del gangsta rap, che incitano alla violenza e al possesso di armi. Questo porta ad ampliare il discorso sulle influenze che la cultura di massa e i mass media hanno sulla popolazione: intelligente, a questo proposito, l'inserimento del videogioco che anticipa l'uccisione del personaggio di Errol è davvero azzeccata.
L'Aids è un altro argomento affrontato nel film, visto che in quegli anni si stava diffondendo e c'era molta disinformazione. Spike: "è importante contestare l'equazione ancora molto diffusa(...) tra Aids e omosessualità". Nel film , infatti, Errol contrae questa malattia tramite una trasfusione.
Interessante l'uso delle luci e dei diversi formati di pellicola: per lo più è stata utilizzata una pellicola Kodak 5239, usata per lo più dai reporter televisivi.
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