Le sorelle Brontë

Film 1979 | Biografico 115 min.

Regia di André Téchiné. Un film con Isabelle Adjani, Marie-France Pisier, Isabelle Huppert, Pascal Greggory, Patrick Magee. Cast completo Titolo originale: Les Soeurs Brontë. Genere Biografico 1979, durata 115 minuti.

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Roland Barthes
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La storia delle Bronté ha qualcosa di mitico (anche la letteratura ha i suoi miti). Queste tre sorelle, figlie di un pastore, cresciute nel mezzo delle lande desolate dello Yorkshire, hanno scritto tutt'e tre versi e romanzi, pubblicandoli inizialmente sotto uno pseudonimo quasi collettivo (differente solo nel nome). Due di questi romanzi appartengono alla letteratura universale: Jane Eyre, scritto da Charlotte, la sorella maggiore, e Cime tempestose, scritto da Emily, la più giovane. Come hanno potuto nascere opere di tanto talento, e soprattutto di una tale asprezza, di una tale violenza, in quell'ambiente pastorale di campagna, e come hanno potuto essere scritte da donne (cosa sorprendente agli occhi del secolo)?
Il film di André Téchiné non distrugge questo mito, ma lo trasforma in modo inatteso. Il film si intitola Le sorelle Bronte, ma il suo vero eroe è un altro: il fratello. Quel fratello (che è realmente vissuto, e ha anche scritto), è il ritorno del Rimosso nella storia delle Bronté. Un rimosso che non è affatto trionfante. Branwell, pieno di desideri e di doni, non realizza nulla; muore d'alcool, di oppio, di sconfitte; minato, travolto, corroso dall'interno, si accascia, si prostra, circondato dalle tre vigili sorelle, forti (almeno moralmente) e impotenti; perché, se mettendosi tutte e tre insieme possono tirarlo fuori dal suo letto che brucia, non riescono a guarirlo dalla "depressione" per cui muore.
Ciò che si racconta, è la storia minuta di quella che si potrebbe definire una micro-rete familiare. Ognuno infatti, vi è presente con le proprie passioni personali: Charlotte per il suo direttore di scuola belga ("l'amore del censore"); Emily con buona probabilità per il fratello, e il fratello stesso, sebbene in modo velleitario, per la madre del suo allievo. Di Anne, la più giovane delle sorelle, non si sa nulla. Più forte di queste passioni divergenti, resta tuttavia la complicità congenitale (è proprio il caso di dirlo) di questi quattro rampolli del vecchio pastore: hanno passato l'infanzia a favoleggiare insieme tra il presbiterio e la landa (Raymond Bellour ha studiato altrove queste fabulazioni a quattro). E vista la forte omogeneità di questo piccolo ambiente, le differenze che segnano poco a poco i partecipanti al gioco hanno qualcosa di tristemente tragico, perché non devono nulla alle circostanze, e neppure ai caratteri, quanto piuttosto a una sorta dì biologia morale (se si concede l'espressione), che fa sì che queste piante umane evolvano in modo differente, a seconda del posto che occupano nel gioco dei sessi.
Per quanto siano tutt'e tre misteriose, è fuor di dubbio che le sorelle non celano in sé lo stesso mistero. Emily (Isabelle Adjani: per differenziare i ruoli adesso diventa infatti necessario citare gli interpreti) è selvaggia (preferisce l'agrifoglio ai fiori) e imperiosa. Charlotte (Marie-France Pisier) nobile e pensosa, è la meglio integrata, si sa di chi è innamorata (il che banalizza sempre un personaggio), lei si mariterà, sopravviverà, godrà un po' della sua notorietà letteraria (Thackeray la inviterà nel suo palco all'Opera). Anne (Isabelle Huppert) è dolce e laconica: non le succede nulla, ma proprio per questo conduce il gruppo delle sorelle a uno stato di perfezione; poiché, tre quali sono, esse formano davvero un gruppo, una sorta d'entità sororale. Ed è di fronte a questo gruppo (pur essendone incluso) che il fratello (Pascal Greggory) va a recitare la sua morte.
La sua morte? Piuttosto la sua cancellazione. Giovane, pieno di speranze e di fiducia, Branwell ha dipinto un quadro rappresentando se stesso in mezzo alle sue sorelle; ma un giorno, qualche tempo dopo, prende una spugna e si cancella. Le tre sorelle restano, e anche i loro libri. L'uomo è stato cancellato. "Non ci sono uomini", dice -Charlotte all'editore, stupefatto d'apprendere in tal modo che romanzi così forti sono stati scritti da donne. Storicamente, miticamente, la creazione cambia di sesso: il sesso passa (come si dice: la mano passa). È l'uomo, il Rimosso; non ha altro volto che quello della loro defezione: "Mi domando a cosa può assomigliare, questo fratello, dice uno dei personaggi di un film, dove gli uomini non sono certo trattati con troppa indulgenza, a eccezione del giovane e affascinante francese che accoglie le sorelle, leggendo Balzac, nell'anticamera dell'editore.
Una storia di famiglia? Sì; ma cosa piuttosto nuova, almeno credo, non si tratta più della Famiglia parentale, in cui si dibattono i rapporti tra genitori e figli; ma di una Fami glia sororale: "orda" bizzarra (per riprendere il termine di Freud), dove sono le sorelle che lottano per il potere (creativo), mentre l'uomo, il fratello, va in deliquescenza; se è vero infatti che siamo entrati in una crisi del Padre, che di volta in volta si vuole uccidere, riabilitare, femminilizzare, ecc., questo Padre, il film di André Téchiné, non lo assassina (lo si vede anche comparire nella sua nuova collocazione, quella di un passante), lo neutralizza, dice semplicemente che il riferimento al Padre non è necessario per mettere in scena la rivalità tra i figli (per piena d'amore che sia).
Questa è la storia raccontata da André Téchiné e da Pascal Bonitzer (autori della sceneggiatura). Mi si dice che al cinema la sceneggiatura non conta affatto e che tutto è affidato alla messa in scena. Ma io non ci credo. Per me la storia è fondamentale. La storia, è ciò che io vedo scandito dal foro della camera obscura (bisogna pure che ci sia qualcosa all'altro capo dell'obiettivo: un senso e non soltanto dei fantasmi). Quanto al cinema, il cinema è la luce ed è il tempo, la forza e la pazienza attraverso cui questa storia viene a impressionare non soltanto i miei occhi ma, ben oltre, la mia memoria.
Il film di André Téchiné resta nella mia testa, come un canto. Continua a lungo a cantare attraverso la bellezza austera dei suoi paesaggi e l'individualità dei suoi volti; li rive do interiormente, come quelli di una famiglia amata: quello della Adjani, una così bella maschera, anche se chiusa e tesa; quello della Pisier, che sembra sempre pensare con gravità a ciò che vede e a ciò che vive; quello della Huppert, affascinante, eppure riservato fino al silenzio, fino all'enigma; quello di Hélène Surgère, di una maturità sovrana eppure così fine; quello di Pascal Greggory, la cui grazia naturale è tragicamente travolta dall'affossamento progressivo del personaggio.
Rivedo così i volti di tutti coloro di cui sono stato compagno di lavoro per qualche giorno in Inghilterra. Senza dubbio l'amicizia ha la sua parte nei miei ricordi; ma credo an che che non avrei potuto argomentare su questo film, né ricavarne un'impressione così forte, se i ruoli non fossero stati condotti con giustezza: nella loro differenza, senza che nessuno abbia mai cercato di chiamarsi fuori dal gioco.
Da Sul cinema, Il Melangolo, Genova, 1994

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