“Pinocchio” è il dodicesimo lungometraggio per il cinema di Guillermo del Toro, un film d’animazione in stop-motion, che il regista premio Oscar per “La forma dell’acqua” ha diretto assieme a Mark Gustafson e sceneggiato con Patrick McHale.
La pellicola è una delle più riuscite nella filmografia del regista messicano. In quest’opera veniamo catapultati nel tenebroso contesto sociale/storico/politico dell’Italia nell’epoca del regime fascista tra la Prima e la Seconda Guerra Mondiale, e dunque, a livello cinematografico, in linea con la poetica e con le atmosfere buie, cupe e crude(li) che hanno caratterizzato le passate pellicole realizzate brillantemente da Guillermo del Toro: “Il labirinto del Fauno” e “La spina del diavolo”.
Calata in quest’ambiente totalitario e minaccioso, ritroviamo la vicenda del più famoso burattino al mondo, quel Pinocchio del celebre libro di Carlo Collodi, ma troviamo anche una riscrittura quasi radicale, tratteggiata con sapiente libertà dal regista e sceneggiatore, dell’intero capolavoro collodiano, del qualelascia intatti i passaggi emblematici, i personaggi fulcro e un certo fascino che animava il libro, ma che usa come spunto iniziale per poi rielaborarlo dall’interno, sondando nuovi orizzonti, ribaltandone completamente il senso e la morale e arrivare fino a una vera e propria riflessione meta-cinematografica.
Pinocchio è infatti qui un personaggio ribelle, insofferente a dittatura e totalitarismi, regole proibitive e divieti, restrizioni e limitazioni di qualsiasi genere: un burattino che ad esempio rifiuta la partecipazione alla guerra e alle gerarchie militari, o che sbeffeggia il regime e addirittura lo stesso Duce. Insomma, vero simbolo di una pura, irriducibile dissidenza.
Il regista lo mette in scena nella maniera a lui più congeniale, seguendo il solco delle sue ossessioni e soprattutto la scelta stilistica dello stop-motion (è il suo esordio in questo tipo di animazione frame by frame)con dei veri e propri pupazzi di plastilina. La realizzazione in stop motion è eccellente e soprattutto ben funzionale alla resa visiva visionaria e spettacolare di certe scene già note o del tutto originali.
Dal cartoon Disney del 1940, Pinocchio è diventato il protagonista dei film di Giannetto Guardone, Roberto Benigni, Matteo Garrone e Robert Zemeckis, per citarne alcuni. Quello di Guillermo del Toro è una fiabadark di un’autenticità narrativa interessante e affascinante, che rinuncia al consueto elogio della morale insita nel libro di Collodi (non dire bugie, rispetta le regole) e umanizza ogni tipo di sentimento, soprattutto di quelli più dolorosi (Pinocchio è incapace di colmare la scomparsa del figlio di Geppetto, e quest’ultimo non riesce a vedere in lui il figlio perduto), ci fa riflettere sull’infanzia compromessa dagli orrori della guerra, e ben approfondisce tematiche universali o attuali, su tutte l’elogio dell’anticonformismo e non-omologazione praticati dal protagonista, come armi per avere autentica libertà di pensiero e di creatività.
A differenza di precedenti adattamenti, questa nuova versione è matura, più adulta, più dalla parte dei mostri, dei “diversi”, degli emarginati e di chi soffre.
Guillermo del Toro sa esaltare gli aspetti più strazianti e umanistici dell’intera vicenda (il potere unificante del dolore e della morte, ma anche dell’amore e della vita), e alla fine riesce ad immergere lo spettatore nella più grande e terribile delle avventure, che da sempre e per sempre è soltanto l’esistenza umana.
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