ashtray_bliss
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lunedì 9 aprile 2018
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impigliato nella rete.
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Dopo due anni finalmente Il Prigioniero Coreano giunge sui nostri schermi offrendosi di aprire un dibattito di natura sociale e politica estremamente attuale e scottante. Kim Ki Duk torna nuovamente ad esplorare il territorio natio, questa volta affondando le mani nelle questioni più sottili e controverse, quelle che hanno contribuito a mantenere alta la tensione tra le due Coree; quelle politiche, ideologiche ed infine sociali. Costruendo un fitto e intenso dramma politico-sociale Ki-Duk riesce a fotografare e mettere in scena le differenze, ma sopratutto, le somiglianze che uniscono più che dividere il regime nordcoerano con la repubblica democratica di Seoul.
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Dopo due anni finalmente Il Prigioniero Coreano giunge sui nostri schermi offrendosi di aprire un dibattito di natura sociale e politica estremamente attuale e scottante. Kim Ki Duk torna nuovamente ad esplorare il territorio natio, questa volta affondando le mani nelle questioni più sottili e controverse, quelle che hanno contribuito a mantenere alta la tensione tra le due Coree; quelle politiche, ideologiche ed infine sociali. Costruendo un fitto e intenso dramma politico-sociale Ki-Duk riesce a fotografare e mettere in scena le differenze, ma sopratutto, le somiglianze che uniscono più che dividere il regime nordcoerano con la repubblica democratica di Seoul.
Un ritratto angosciante e rigoroso che mette a fuoco tutte le contraddizioni di entrambi i sistemi e sopratutto evidenzia la sconcertante pressione che ambedue esercitano sui soggetti provenienti dall'altro lato del confine. Perchè se nel paese governato dai Kim Jong sappiamo che la militarizzazione del governo e della polizia esercitano un pressing e un controllo esaustivo sulla popolazione, mostrando poca comprensione e flessibilità per i soggetti in stato di fermo o arresto, al tempo stesso notiamo che la democratica Seoul non sembra differire molto nel modus operandi nei confronti dei prigionieri provenienti dal Nord. Attivando una serie di meccanismi che non tardano a sfociare nella tortura, fisica e psicologica, la polizia federale di Seoul, pur di difendere a tutti i costi gli interessi del Paese, crea nemici e spie ad hoc anche laddove non esistono, per mezzo dei metodi impiegati. La tortura psicologica però non si arresta e non si placa nemmeno davanti ai continui, estenuanti, interrogatori alla ricerca di false confessioni di spionaggio, manifestandosi sotto forma di una pretestuosa offerta di cittadinanza, rilasciata naturalmente solo dopo aver rinnegato, in un certo senso abiurato, la propria patria; un sentiero a senso unico per acquisire un nuovo adepto e battezzarlo nell'ideologia della democrazia, del liberalismo ma anche del capitalismo, noncuranti degli affetti e delle responsabilità che legano il protagonista, Chol Woo, alla madre patria e dei devastanti effetti psicologici di tali azioni.
Attraverso le vicende di un malcapitato pescatore nord coreano, che a causa di un'incidente in barca (le reti si impigliano nel motore) e totalmente contro la sua volontà verrà trascinato dalla corrente fino alla Corea del Sud, vengono esposti tutti quei meccanismi che operano a nome d'ideologie diverse ma in che in realtà servono gli stessi identici scopi: piegare l'individuo al volere della propria ideologia, utilizzando ogni mezzo possibile, dalla coercizione psicologica alla tortura fisica, costringendolo ad accettare le condizioni da loro offerte e abbracciare il loro modo di vedere il mondo. Un'imposizione molto lontana dai reali principi e valori di una democrazia, che rivela un'immagine realistica e alquanto angosciante e sconcertante, producendo un nitido ritratto sullo scontro tra ideologie che finisce per manifestarsi nello stesso identico modo.
Il protagonista si trova cosi imbrigliato in una opprimente rete politica che non gli lascia alternative e lo mette, talvolta letteralmente, con le spalle al muro: accettare l'offerta di cittadinanza e rinunciare per sempre al proprio Paese, compresa alla possibilità di tornare indietro e ricongiungersi con la sua famiglia, oppure rischiare di essere accusato di spionaggio. Chul Woo nella sua personale battaglia di resistenza respingerà le accuse e si rifiuterà categoricamente di tradire la patria. Non solo, ma immerso nel cuore di Seoul e mantenendo fede a ciò che il regime gli ha inculcato si rifiuterà il più possibile di vedere, assistere e partecipare attivamente a quel nuovo mondo che lo circonda; non meno spietato nei confronti dei suoi cittadini o privo di limiti e difetti. Quando il protagonista dovrà, seppur brevemente, far i conti col lato oscuro della city il suo dilemma morale si acuisce arrivando a chiedersi come può esserci cosi tanta miseria e disperazione in un paese democratico, stendardo del benessere? Dove c'è una forte luce c'è una grande ombra sarà la disarmante replica e in questo contesto si evince ancor più chiaramente l'intenzione di Kim Ki Duk di fornire una dura critica verso entrambi i sistemi, di qualsiasi natura e tipologia essi siano, senza graziare nè assolvere nessuno dalle proprie colpe. La democrazia capitalistica di stampo occidentale così come la dittatura di stampo maoista mietono vittime che altri non sono se non la gente comune, quella silenziosa e talvolta invisibile maggioranza che lotta quotidianamente per sopravvivere; chi come il pescatore protagonista e chi come prostituta nei vicoli oscuri di Seoul.
La rete che dunque avvinghia il nostro protagonista è soffocante e oppressiva, resa in modo realistico e molto vivido attraverso le lunghe sequenze dell'interrogatorio che incutono un senso di claustrofobia e annientamento psicologico di notevole impatto nello spettatore. Anche quando questo interminabile incubo sembra finalmente giungere alla fine col rimpatrio dell'uomo, grazie anche al coinvolgimento dei media nella vicenda, ecco che assistiamo all'inizio di un nuovo, infernale, giro di interrogatori e pressing psicologico, questa volta da parte della polizia nord coreana.
La rete che tiene prigioniero il pescatore non si è ancora recisa e l'uomo resta incastrato, imprigionato tra due mondi diversi, guidati da ideologie e politiche agli antipodi l'una dall'altra ma assimilati dalla stessa diffidenza, dal pregiudizio e dall'odio nei confronti dell'altro che sfociano in brutali manovre che piegano ed infine svuotano completamente il soggetto. Chul Woo infatti appare completamente vuoto, esausto ed emotivamente prosciugato anche sul cammino verso casa. Rivedere la sua famiglia, le uniche persone per lui importanti e coloro che gli hanno dato la forza mentale per sopportare il suo calvario, ora non sono più in grado di dargli gioia o conforto, di farlo sentire realmente a casa, al sicuro. La peripezia da lui vissuta è stata catalitica nel trasformarlo completamente e nel svuotarlo psicologicamente e sentimentalmente. Alla fine, l'uomo tornerà all'unica attività che conosce e che sa fare: la pesca. L'unico modo per mantenere dignitosamente la famiglia e l'unica attività che gli garantisce la sopravvivenza. Ma ora le dinamiche sono totalmente cambiate e l'esito sarà inesorabile.
Un'opera estremamente politica che tuttavia non dimentica mai di fornire uno sguardo approfondito (e una critica) sociale rivolto principalmente alle estrazioni sociali maggiormente colpite e oppresse dai regimi di ogni tipologia. In questo caso, Kim Ki Duk critica duramente il regime della Corea del Nord e il modo in cui tratta i propri cittadini. Dall'altro canto tuttavia non risparmia una critica altrettanto aspra nei confronti della sua patria, la Corea del Sud, evidenziando in maniera limpida come i rapporti fra i due stati siano irreparabilmente incrinati, compromessi e dominati dal reciproco odio e pregiudizio. Una storia che rievoca ferite e ombre del passato fornendo tuttavia uno sguardo asciutto della situazione e mettendo al centro del racconto una storia di determinazione e coraggio nonchè di irremovibilità dai propri principi derivati dall'amore e dal senso di responsabilità nei confronti della propria famiglia.
Un tocco molto umano e realistico impresso nell'ennesimo ottimo film di Ki Duk che non smette comunque di stupire e conquistare. Voto: 3,5/5.
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sia21
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martedì 10 aprile 2018
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la corea secondo kim ki-duk
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Solitamente ritengo che le tematiche trattate in un film debbano incidere in maniera piuttosto limitata o non incidere proprio sulla valutazione di una pellicola: a mio avviso, così facendo, ci saremmo risparmiati la visione di decine di pluripremiati film incolori che insistono su problematiche sociali serie in modo terribilmente superficiale e semplicistico. La storia insegna, però, che combattere stereotipi con altri stereotipi non è mai una carta vincente, tutt'altro.
Fatta questa premessa, vorrei però sottolineare come prendere le distanze dalla materia di questo film per esprimere un giudizio più "oggettivo" non sia un compito così facile.
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Solitamente ritengo che le tematiche trattate in un film debbano incidere in maniera piuttosto limitata o non incidere proprio sulla valutazione di una pellicola: a mio avviso, così facendo, ci saremmo risparmiati la visione di decine di pluripremiati film incolori che insistono su problematiche sociali serie in modo terribilmente superficiale e semplicistico. La storia insegna, però, che combattere stereotipi con altri stereotipi non è mai una carta vincente, tutt'altro.
Fatta questa premessa, vorrei però sottolineare come prendere le distanze dalla materia di questo film per esprimere un giudizio più "oggettivo" non sia un compito così facile. Kim Ki-duk è un regista coreano, e ogni prefisso a questo aggettivo, alla luce del suo ultimo lavoro, risulta alquanto superfluo: il dolore di Nam Chul-woo, povero pescatore della Corea del Nord che, a causa di un guasto meccanico al motore della sua piccola imbarcazione, sconfina in quella del Sud, è il dolore che provano sulla propria pelle il regista e milioni di persone silenti sopra e sotto quella linea di demarcazione posta a divisione di un unico popolo. Un confine arbitrario e irreale ma con effetti tremendamente reali, che si mostrano in tutta la loro brutalità nelle violenze subite da un padre di famiglia, arrestato e torturato per delle colpe che non riesce a comprendere, alla stregua di uno Josef K. di kafkiana memoria. E' questa la gabbia d'acciaio all'interno della quale uomini inconsapevoli sono imprigionati: il confine fra vittima e carnefice è spesso labile, l'individualità appiattita, sacrificata sull'altare di una razionalità che, portata alle sue estreme conseguenze, diventa assolutamente irrazionale, perfettamente disumana; solo un uomo innocente, offeso e privato di qualsiasi bene, se non dell'amore per la sua famiglia, sembra riacquisire il contatto con la realtà delle cose.
Questo non è forse il miglior film di Kim Ki-duk, che nel corso degli anni si è reso autore di pietre miliari del cinema, tuttavia è un film che brilla di un'autenticità di sentimenti ed una partecipazione emotiva difficilmente negabili.
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[+] "...e adesso dalla rete sono stato preso io ..."
(di tom87)
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flyanto
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mercoledì 18 aprile 2018
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quanto non paga l'onestà di comportamento e di ide
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In questi giorni ritorna felicemente nelle sale cinematografiche italiane il regista coreano Kim Ki-Duk con il suo ultimo film "Il Prigioniero Coreano".
Il protagonista di questa pellicola è un semplice pescatore di un villaggio della Corea del Nord posto al confine con quella del Sud, il quale ogni mattina si reca al fiume con la sua barca per pescare e procacciare un misero pasto alla sua famiglia composta da una moglie ed una bambina.
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In questi giorni ritorna felicemente nelle sale cinematografiche italiane il regista coreano Kim Ki-Duk con il suo ultimo film "Il Prigioniero Coreano".
Il protagonista di questa pellicola è un semplice pescatore di un villaggio della Corea del Nord posto al confine con quella del Sud, il quale ogni mattina si reca al fiume con la sua barca per pescare e procacciare un misero pasto alla sua famiglia composta da una moglie ed una bambina. Un giorno la rete da pesca gli si impiglia nel motore della barca e, non riuscendo più a farlo ripartire, egli viene trascinato dalla corrente del fiume oltre il confine e, dunque, nel territorio della nemica Corea del Sud. Da qui inizierà per lui un calvario lungo e doloroso, anche fisicamente, in quanto, preso prigioniero dalla polizia locale, verrà da questa accusato di spionaggio. Una volta lasciato ripartire e ritornato nella natia Corea del Nord, il protagonista ugualmente dovrà subire lo stesso 'iter' accusatorio e, nonostante il proprio comportamento sempre leale ed onesto nel confronti del suo Governo, si dirigerà verso una fine immeritata.
Kim Ki-Duk con questa pellicola affronta in maniera diretta la tematica che gli interessa trattare anzichè, come nelle sue opere precedenti, esporla attraverso un simbolismo ed un lirismo poetico elevati. "Il Prigioniero Coreano" è, infatti, un film straziante e molto crudo ma, più che per le scene presentate che sono brevi ed esigue di numero, nel significato stesso del tema affrontato riguardante la politica e la natura umana in generale e che la genera. La visione del regista è quanto mai negativa e pessimista: le due Coree che egli presenta nella loro realtà più vera attraverso il regime ed l' indrottinamento politico di ciascuna mette in luce quanto entrambi i sistemi politici e, più estesamente, l'animo umano in sè, pur in differenti contesti, siano uguali poichè dalel stesse debolezze e difetti. insomma, nessuno si salva fuorchè il protagonista a cui, a guisa di figura quasi irreale, non spetta però una bella fine ed alcuna ricompensa. Il suo idealismo e le sue onestà ed integrità non si confanno e non si amalgamano con il mondo circostante corrotto e spietato e, dunque, non possono continuare ad esistere.
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kimkiduk
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martedì 17 aprile 2018
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buono ma non eccelso
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Dare solo tre stelle a Kim per me, che penso si capisca lo ammiro, è triste.
Purtroppo lo ammiro ma non posso che criticarlo ricordando il livello dei suoi capolavori.
Credo sia difficile restare a quei livelli, ma non riesce ancora ad essere quello di anni fa.
E' anche vero che, escludendo Pietà, era veramente sceso tanto con film quasi pessimi tipo Moebius, Amen o One on One.
Altra grossa sfortuna per Kim è che i film asiatici sono massacrati dal doppiaggio di serie B, con voci e molto probabilmente traduzioni diverse dall'originale.
E qui si supera l'orrendo, con voci e doppiatori inadatti.
La storia ha un significato importante; il momento post Olimpiadi sembra fatto apposta; il messaggio della speranza dell'unificazione delle due Coree è sicuramente presente adesso nel mondo, anche per escludere o abbassare il rischio e la paura della follia della Corea del Nord.
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Dare solo tre stelle a Kim per me, che penso si capisca lo ammiro, è triste.
Purtroppo lo ammiro ma non posso che criticarlo ricordando il livello dei suoi capolavori.
Credo sia difficile restare a quei livelli, ma non riesce ancora ad essere quello di anni fa.
E' anche vero che, escludendo Pietà, era veramente sceso tanto con film quasi pessimi tipo Moebius, Amen o One on One.
Altra grossa sfortuna per Kim è che i film asiatici sono massacrati dal doppiaggio di serie B, con voci e molto probabilmente traduzioni diverse dall'originale.
E qui si supera l'orrendo, con voci e doppiatori inadatti.
La storia ha un significato importante; il momento post Olimpiadi sembra fatto apposta; il messaggio della speranza dell'unificazione delle due Coree è sicuramente presente adesso nel mondo, anche per escludere o abbassare il rischio e la paura della follia della Corea del Nord.
Kim Ki Duk è sicuramente un coreano che ama il suo paese, ma che sappiamo non ne è contraccambiato in termini artistici ed ha dovuto sempre cercare in Italia o Francia l'apprezzamento del suo talento.
Si sente sempre, e qui penso sia anche facile, il suo dolore per un paese che non è come lui vorrebbe e forse come molti coreani vorrebbero.
Però, anche se non disprezzabile, il mettere in evidenza la differenza tra le due Coree ed il male nascosto sia nell'integralismo politico del Nord e nel capitalismo del Sud, è reso abbastanza semplicemente.
Non aggiunge niente a quello che sappiamo e ci aspettiamo.
In pratica il film non morde lo stomaco, prerogativa dei suoi capolavori.
Ti salverò sempre Kim, ma aspetto sempre di riconoscerti un pò di più.
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zarar
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mercoledì 2 maggio 2018
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senza scampo
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Nam Chul-woo, un povero pescatore nord-coreano, passa casualmente il confine con la Corea del Sud a causa di un guasto della sua barchetta a motore, ed è catturato dalla polizia.
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Nam Chul-woo, un povero pescatore nord-coreano, passa casualmente il confine con la Corea del Sud a causa di un guasto della sua barchetta a motore, ed è catturato dalla polizia. Inizia una storia da incubo, che investe un uomo semplice, che ama senza complicazioni la sua famiglia, il suo lavoro e anche la sua patria, e che realizza prestissimo quanto sarà difficile sottrarsi ad un destino che mette in gioco tutta la sua vita, in una situazione che lo sovrasta totalmente e che quasi certamente lo stritolerà. I coreani del Sud mirano a condannarlo come spia, o a farne un convertito al capitalismo e allora le adorate moglie e figlia saranno perse per sempre o addirittura perseguitate. Nam Chul-woo non cede, resiste con tutte le sue forze e la sua dignità alle torture e alle umiliazioni così come alle lusinghe, vuole tornare a casa con la testa alta. Potrà tornare in patria, ma è lui il primo a sapere che non può aspettarsi niente di buono: anche qui sarà immediatamente sotto accusa, sospettato di essere stato liberato per aver fatto la spia. E dunque, in un processo esattamente speculare, subisce gli stessi interrogatori e le stesse sevizie, resistendo ancora una volta con tutte le sue forze, e – quel che è peggio – scoprendo la malafede e la corruzione di chi lo sta torturando senza ragione. Ne uscirà vivo, ma distrutto, incapace anche semplicemente di recuperare un rapporto con gli esseri che gli sono più cari. Un ultimo colpo porterà alla tragedia finale. Nella sua nitida durezza e semplicità, nel suo terribile schematismo, il film non ha ambizioni formali, propone apertamente una tesi, ma ci pone con forza di fronte ad una realtà spesso dimenticata e colpisce a fondo. In un momento in cui le due Coree tornano a parlarsi, ed è facile che la rimozione prevalga sulla memoria storica, vale la pena di soffermarsi a riflettere sulla storia che il regista Kim Ki- Duk propone. Tre stelle e mezzo.
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camillalavazza
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martedì 1 maggio 2018
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uguaglianza degli opposti
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Ne Il prigioniero coreano Kim Ki-Duk firma, oltre alla sceneggiatura e alla regia, anche la fotografia, come aveva già fatto in altre sue precedenti opere, rispetto alle quali si nota forse una dose inferiore di violenza fisica, compensata da un’estenuante e claustrofobica sensazione di impotenza.
L’impotenza dell’uomo comune che desidera solo vivere la sua vita, per quanto povera, che crede in quello che gli hanno insegnato, perché è tutto ciò che conosce, che spera solo di passare inosservato, perché sa che nulla di buono può venirgli dall’essere al centro dell’attenzione dei potenti.
Ma al centro dell’attenzione ci finisce, e noi siamo portati a chiederci se abbia il benché minimo senso dare tanta importanza ad un confine arbitrariamente posto in mezzo all’acqua, elemento fluido che scorre comunque da una parte all’altra (l’acqua e le barche, due temi ricorrenti nella filmografia di Kim Ki-duk) ed al fatto di oltrepassarlo senza alcuna intenzione, trascinati dalla corrente.
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Ne Il prigioniero coreano Kim Ki-Duk firma, oltre alla sceneggiatura e alla regia, anche la fotografia, come aveva già fatto in altre sue precedenti opere, rispetto alle quali si nota forse una dose inferiore di violenza fisica, compensata da un’estenuante e claustrofobica sensazione di impotenza.
L’impotenza dell’uomo comune che desidera solo vivere la sua vita, per quanto povera, che crede in quello che gli hanno insegnato, perché è tutto ciò che conosce, che spera solo di passare inosservato, perché sa che nulla di buono può venirgli dall’essere al centro dell’attenzione dei potenti.
Ma al centro dell’attenzione ci finisce, e noi siamo portati a chiederci se abbia il benché minimo senso dare tanta importanza ad un confine arbitrariamente posto in mezzo all’acqua, elemento fluido che scorre comunque da una parte all’altra (l’acqua e le barche, due temi ricorrenti nella filmografia di Kim Ki-duk) ed al fatto di oltrepassarlo senza alcuna intenzione, trascinati dalla corrente. Importanza che invece paiono attribuirgli i serissimi militari, carrieristi e corrotti da entrambi i lati, che lo interrogano, prima al Sud e poi al Nord, utilizzando i medesimi metodi, le medesime espressioni, tanto che lui stesso quasi ne sorriderebbe, se non fosse troppo sfinito e spaventato per concederselo.
Perfino i fotografi che devono immortalare la sua partenza dal Sud ed il suo ritorno al Nord, su opposte sponde, paiono identici.
Tanto diverse, eppure così uguali, queste due Coree sono uniformate anche dalla fotografia che rimane opaca e spenta anche quando si passa al Sud, regno del consumismo; non è tutt’oro e nemmeno brilla.
L’impotenza è anche quella della giovane guardia che dovrebbe vegliare sul prigioniero ma che, ultimo anello nella gerarchia, non ha altra difesa che la parola di fronte alla violenza fisica.
Il protagonista appena catturato tiene tenacemente gli occhi chiusi, rifiutando di osservare e così, anche a noi, la macchina da presa inizialmente permette solo di intravedere qualche scorcio della città. L’immaginazione del prigioniero gli fa temere chissà quali meraviglie proibite, forse teme di perdere l’anima e di certo sa che, se tornerà a casa, verrà punito per aver guardato. Costretto con l’inganno ad aprire gli occhi, ciò che vede lo stupisce, sì, per un breve momento, ma, forse, non tanto quanto lui stesso si era aspettato, tanto più che ben presto si imbatte in situazioni di miseria (la prostituta) che convivono “liberamente” accanto all’opulenza delle vie centrali.
Uomo semplice ed integerrimo non cede alla facile violenza (più volte avrebbe l’occasione con la sua forza di uccidere i suoi aguzzini ma si limita a dar loro una lezione, dura ma non letale) e non considera nemmeno una tentazione la prospettiva di un’agiata vita al Sud. Tutto ciò che desidera è tutto ciò che ha importanza davvero nella vita: i suoi affetti.
Ma quello che ha passato inevitabilmente lo trasforma, non come temeva, per il solo fatto di aver osservato un universo “altro”, ma perché ha visto quanto i due mondi contrapposti si somiglino, quanto in fondo siano uguali. La sua impotenza nei confronti del potere si traduce letteralmente nell’impotenza fisica di amare la propria donna e procurare il sostentamento alla propria famiglia con il lavoro.
Più volte nel corso del film ed anche in ultimo egli grida, disperato: “Smettetela di prendermi in giro!”. Ecco, è questo il grido dell’uomo che si accorge che quando vogliono fargli credere che qualcosa, qualsiasi cosa, un confine, la patria, l’onore, il benessere materiale, la libertà, siano più importanti dei suoi affetti, lo stanno solo prendendo in giro.
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cardclau
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sabato 14 aprile 2018
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l'umano al di là della politica
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C'era una volta un povero pescatore ... che come gli si impiglia la rete nelle pale dell'elica, e sfora, attaverso il fiume, apparentemente indenne, dalla Corea del Nord alla Corea del Sud, rimane impigliato nel gioco al massacro, alla fine per lui mortale, tra le due Coree. Ne aveva avuto la lucida consapevolezza, quando aveva osservato ad un certo punto: "i pesci non hanno scampo quando vengono presi nella rete, e adesso dalla reta sono stato preso io ...". Ci rimette la vita, è vero, ma non l'onore. Preserva sempre, e non perde mai, la sua dignità di essere umano, che tratta gli altri alla pari, che mantiene la parola data, che non gode dell'altrui sofferenza, che è capace di compassione, e di comprensione del pericolo, anche di fronte a due situazioni che si dimostrano estreme.
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C'era una volta un povero pescatore ... che come gli si impiglia la rete nelle pale dell'elica, e sfora, attaverso il fiume, apparentemente indenne, dalla Corea del Nord alla Corea del Sud, rimane impigliato nel gioco al massacro, alla fine per lui mortale, tra le due Coree. Ne aveva avuto la lucida consapevolezza, quando aveva osservato ad un certo punto: "i pesci non hanno scampo quando vengono presi nella rete, e adesso dalla reta sono stato preso io ...". Ci rimette la vita, è vero, ma non l'onore. Preserva sempre, e non perde mai, la sua dignità di essere umano, che tratta gli altri alla pari, che mantiene la parola data, che non gode dell'altrui sofferenza, che è capace di compassione, e di comprensione del pericolo, anche di fronte a due situazioni che si dimostrano estreme. Questo è strepitoso. Non è la storia un povero pescatore, ma di un grande uomo, anche se non si è laureato ad Harvard, non ha letto i volumi sul sapere psicologico occidentale, e mangia disconoscendo le squisite regole del galateo. Al di là delle considerazioni politiche (per carità, doverose), e dei due sistemi, diversi, ma simili, nel soggiogare ciò che Dio ci ha donato di più prezioso. La libertà e il rispetto della diversità, evitando l'instancabile avidità affamata della sofferenza altrui. La grandezza del film Il prigioniero coreano di Kim Ki-duk sta proprio qui. Perdoniamo al regista la scena forse troppo facile, alla Rambo, quando "pugno d'acciaio" mette in fuga, piuttosto malconci, due poco di buono, tendenzialmente femminicidi, che stavano abusando di una prostituta. La scena iniziale è meravigliosa. La moglie sveglia il marito, per andare a pescare, e mentre lui sta rientrando dal mondo dei sogni, osserva teneramente che alla mattina quando si sveglia, suo marito è ancora più bello. Basta questo per scatenare l'eccitazione, e fanno all'amore, quello vero.
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stefanocapasso
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lunedì 26 novembre 2018
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la famiglia al centro delle lottte di potere
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Nam Chul-woo vive sulle sponde di un fiume che collega il suo paese la Corea del Nord con quella del Sud.
Ogni mattina lascia la sua umile casa e va con la sua barca a pescare, ma un giorno il motore della barca si rompe e alla deriva finisce nell’odiato paese nemico. Viene preso dai militari e interrogato diverse volte perché sospettato di essere una spia. Il suo è un calvario, viene sottoposto a diversi trattamenti per farlo confessare o in alternativa disertare, ma Nam resiste con la ferma intenzione di tornare dalla sua famiglia. Tornato al nord questa volta è ritenuto colpevole di aver vissuto il capitalismo e di essersene innamorato. Esausto si ribella contro tutti.
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Nam Chul-woo vive sulle sponde di un fiume che collega il suo paese la Corea del Nord con quella del Sud.
Ogni mattina lascia la sua umile casa e va con la sua barca a pescare, ma un giorno il motore della barca si rompe e alla deriva finisce nell’odiato paese nemico. Viene preso dai militari e interrogato diverse volte perché sospettato di essere una spia. Il suo è un calvario, viene sottoposto a diversi trattamenti per farlo confessare o in alternativa disertare, ma Nam resiste con la ferma intenzione di tornare dalla sua famiglia. Tornato al nord questa volta è ritenuto colpevole di aver vissuto il capitalismo e di essersene innamorato. Esausto si ribella contro tutti.
Kim Ki Duk affronta un tema politico, quello eterno della suddivisione delle due Coree e cosa impedisce una possibile riunificazione. Al povero protagonista i due regimi finiscono per riservare un trattamento molto simile, anche nelle modalità corruttive che si portano dietro. Per l’individuo che ha scelto come vero punto di riferimento la sua famiglia il potere diventa persecutorio tanto al sud che al nord. Tracce del cinema del regista sud coreano disperse in una generale perdita di potenza espressiva, sua particolare cifra stilistica.
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giuseppe lombardo
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mercoledì 25 marzo 2020
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cinema senza confini...
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Film amaro, drammatico e emotivamente molto coinvolgente. La tragica storia del protagonista mette in risalto la labilità di un confine, che non necessariamente resta un qualcosa di fisico, ma come in questo caso, esso diviene un qualcosa di mentale, ideologico.
Fa cornice alla storia, la situazione politica delle due Coree. In risalto le contraddizioni dei due sistemi e di come questi possano generare eccessi e derive.
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Film amaro, drammatico e emotivamente molto coinvolgente. La tragica storia del protagonista mette in risalto la labilità di un confine, che non necessariamente resta un qualcosa di fisico, ma come in questo caso, esso diviene un qualcosa di mentale, ideologico.
Fa cornice alla storia, la situazione politica delle due Coree. In risalto le contraddizioni dei due sistemi e di come questi possano generare eccessi e derive.
La forza di questo film resta quella di farti sentire accanto alla storia del protagonista; le varie opportunità, ed occasioni, che si presentano sono percepite dallo spettatore come qualcosa di vicino. Notevole, quindi, il coinvolgimento empatico che si percepisce.
Il finale, tragico per il protagonista, sembra una liberazione dal suo unico male: l'essere l'unico ad avere dei valori saldi.
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luca scialo
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sabato 19 dicembre 2020
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un pescatore impigliato tra due ideologie disumane
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Un povero pescatore nordcoreano, Nam Chul-woo, finisce involontariamente per oltrepassare le acque di competenza della Sud Corea, per una avaria del motore del suo piccolo peschereccio. Viene così arrestato e sottoposto a duri interrogatori per capire se fosse o meno una spia dell'altra parte del paese. Solo un funzionario, più giovane degli altri, cerca di aiutarlo confidando nell'involontarietà della sua situazione. Quando però sarà finalmente liberato e si ritroverà nella sua madre patria, sarà nuovamente sottoposto a pesanti interrogatori, accusato di essere un traditore della patria. Kim Ki-Duk utilizza le vicissitudini di un umile pescatore in balia di due ideologie ugualmente disumane pur essendo opposte - capitalismo e comunismo - per criticare entrambe le corree.
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Un povero pescatore nordcoreano, Nam Chul-woo, finisce involontariamente per oltrepassare le acque di competenza della Sud Corea, per una avaria del motore del suo piccolo peschereccio. Viene così arrestato e sottoposto a duri interrogatori per capire se fosse o meno una spia dell'altra parte del paese. Solo un funzionario, più giovane degli altri, cerca di aiutarlo confidando nell'involontarietà della sua situazione. Quando però sarà finalmente liberato e si ritroverà nella sua madre patria, sarà nuovamente sottoposto a pesanti interrogatori, accusato di essere un traditore della patria. Kim Ki-Duk utilizza le vicissitudini di un umile pescatore in balia di due ideologie ugualmente disumane pur essendo opposte - capitalismo e comunismo - per criticare entrambe le corree. Ancora divise malgrado ci troviamo nel Nuovo Millennio. La critica è però bipartisan e rivolta sia alla sua pseudo-libera e felice Sud Corea, che alla parte avversa, opprimente e annullatrice delle diversità. Un inno alla pace e un grido disperato in favore della riunificazione. Una critica cruda ma al contempo poetica. Con sequenze di alto impatto, che spingono alla riflessione per ambo le parti. Su tutte, il fatto che la figlia preferisca, nonostante tutto, il peluche vecchio e rotto del suo paese, a quello luccicante e moderno dell'altra parte del suo paese.
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