I demoni di San Pietroburgo

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Un film di Giuliano Montaldo. Con Predrag 'Miki' Manojlovic, Carolina Crescentini, Roberto Herlitzka, Anita Caprioli.
continua»
Drammatico, durata 118 min. - Italia 2007. - 01 Distribution uscita giovedì 24 aprile 2008. MYMONETRO I demoni di San Pietroburgo * * 1/2 - - valutazione media: 2,67 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

Demoni. Torno al cinema dopo dicott’anni per raccontare Dostoevskij e le mie illusioni perdute.

di Federica Lamberti Zanardi Il Venerdì di Repubblica

Giuliano Montaldo ha girato un film sulla vita del grande scrittore russo, Mescolata con i sentimenti dei protagonisti dei suoi capolavori. La politica? «Non dà più emozioni».
La vita di Fëdor Dostoevskij, le sue sofferenze, i suoi dieci annidi lavori forzati in Siberia, la grazia che arriva un attimo prima che ìl plotone di esecuzione lo uccida, i debiti di gioco, sono forse il romanzo più incredibile e affascinante di questo scrittore. Ed è per questo che ho voluto raccontarla». Giuliano Montaldo torna al cinema dopo 18 anni di esilio volontario con I demoni di San Pietroburgo, un filmone che per sfarzo e impegno produttivo fa pensare ai kolossal americani e invece è costato poco più di quattro milioni di euro. Nato da un'idea di Andrei Konchalovsky (il regista e sceneggiatore russo fratello di Nikita Mikhalkov) e scritto da Paolo Serbandini con Montaldo e Monica Zappelli, il film racconta un momento della vita di Dostoevskij, mescolando in un clima onirico gli scritti, i romanzi, le ossessioni, con frammenti di realtà.
Siamo nel 1860, a San Pietroburgo una bomba uccide un membro della famiglia imperiale. Pochi giorni dopo Dostoevsldj va in un ospedale psichiatrico per incontrare un paziente. È Gusiev, un giovane rivoluzionario che si finge matto per sfuggire sia alla polizia sia hai suoi compagni, i terroristi che hanno compiuto l'attentato e ne stanno progettando un altro. Gusiev vuole l'aiuto dello scrittore per convincere il gruppo ad abbandonare la violenza perché sa che lo ascolterebbero. Dostoevskij comincia a cercare i giovani e nello stesso tempo deve finire la stesura del Giocatore altrimenti sarà rovinato dai debiti. Come in un movimento sincrono, il film narra i sei giorni che separano lo scrittore dall'attentato e dalla consegna del libro. Un tempo ossessivo e frenetico in cui tutto si compie. Un film bellissimo e complesso, con un cast di attori commoventi per intensità e concentrazione, da Roberto Herlitzka allo slavo Miki Manojlovic, da Filippo Timi a Carolina Crescentini, da Anita Caprioli a Sandra CeccarelIL «Mi sono sentito come un direttore d'orchestra che ha dei solisti straordinari: basta fare un cenno e loro vanno da soli» racconta il regista di Sacco e Vanzetti, Giordano Bruno, Gli occhiali d'oro, seduto al grande tavolo della sua casa romana dalle pareti rosa. «In questa casa sono un ospite. Di mia moglie» dice con un sorriso che illumina i suoi occhi azzurri che nonostante i 78 anni conservano allegria e dolcezza.
E cosa l'ha spinta dopo 18 anni a tornare al cinema, visto che ormai si dedicava con successo alla regia di opere liriche?
«Forse perché mia moglie Vera mi diceva che ogni tanto la notte, nel sonno, dicevo: motore, azione. In realtà è stato il desiderio di superare la dolorosa delusione di Tempo di uccidere, il film del 1990 che non era venuto come avrei voluto».
Forse anche la partecipazione come attore al Caimano di Moretti le ha fatto tornare la voglia del set.
«Forse. Ma girando i Demoni di San Pietroburgo e vedendo recitare insieme Roberto Herlitzka e Miki Manojlovic, mi sono detto che ho fatto bene a smettere di recitare».
Insieme sono straordinari...
«Quando si sono incontrati si sono annusati e riconosciuti come due fuoriclasse. E vederli recitare insieme è un piacere dell'anima».
Come Gian Maria Volontè, di cui ha detto che era un attore capace di trasmettere emozioni solo con la sua presenza? «Come lui non c'è nessuno. Ho avuto la fortuna di lavorare con grandissimi attori. Ma se penso a Volontè penso a qualcosa di misterioso. Come si può dalla sera alla mattina sembrare un altro? Durante le riprese di Giordano Bruno avevamo girato le scene del processo in cui il filosofo è un uomo ancora solido, forte, fiero. La mattina dopo dovevamo fare le scene del secondo grado di inquisizione in cui, Bruno dopo una lunga sofferenza in carcere, è invece vinto, stremato, sfinito.
E sul set vedo arrivare un uomo cui lo stesso saio del giorno prima stava largo, il viso scavato, sofferente. Chi era? Che cosa era successo all'attore durante la notte? Come aveva potuto "diventare" Giordano Bruno? Non lo so ancora».
Quanto si paga a livello personale una capacità del genere?
«Si può morire per essere un grande attore».
In questo film si toccano moltissimi terni che hanno a che fare con il potere, la responsabilità personale, il destino: per lei qual è il nucleo centrale?
«Nei miei film ho sempre cercato di raccontare l'insofferenza per l'intolleranza. Anche stavolta racconto l'insofferenza di un intellettuale che non riesce a capire il perché della violenza. Con il dramma di essere accusato di averla predicata. C'è l'angoscia di uno scrittore che si sente inseguire dalla storia perché tutto quello che ha scritto resta anche se lui non lo condivide più».
Non le è mai venuta voglia di raccontare l'attualità?
«Ho fatto una gran fatica a trovare i soldi per i miei film. Passavano anche tre, quattro anni dal momento dell'ideazione alle riprese. Per queso preferisco trattare temi universali. Quando fu il turno di Sacco e Vanzetti il primo produttore cui mi rivolsi mi disse: "Ma che cos'è? Una dïtta di import-export?" Gott mit uns (Dio è con noi) non riuscivano nemmeno a pronunciarlo. Con GiordanoBruno per un anno tutte le mattine mi facevo trovare nell'ufficio di Carlo Ponti che bofonchiava in milanese: "cosa vuoi? ancora parlare di quello h?". Solo una volta stavo per raccontare la cronaca ma è finita in tragedia».
Quale volta?
«Negli anni Settanta, con Andrea Barbato. Dovevamo fare un film su Salvatore Allende. Era stato lui stesso a contattarmi dopo aver visto Sacco e Vanzetti: mi aveva mandato una bellissima lettera, che ancora conservo, dove chiedeva se volevo raccontare l'esperimento di Unïdad Popolar. Così ci siamo messi a lavorare sui documenti e ci siamo resi conto che sarebbe morto presto. E, infatti, mentre scrivevamo lo uccisero».
Perché non lo avete girato lo stesso?
«Quando sono arrivato a casa e mia moglie mi ha detto che avevano ucciso Allende, ho pensato che era finito tutto: sogni, speranze. Tutto».
Quante altre volte nella vita ha avuto la sensazione che gli ideali cui credeva non si sarebbero mai realizzati? Quante volte si è sentito sconfitto dal potere, dalla violenza?
«Dal 1945 in poi ... Vorrei tanto vedere i politici di oggi come li vedevo quando ero ragazzo: su un palco scenico in campo lungo con una magia straordinaria. Quando avevo sedici anni, a Genova, la mia città, assistei a un comizio di Di Vittorio. Mio padre, che era socialista, non potè andarcï perché stava male. Mi disse: ti prego vai tu e poi mi racconti. Non avevo voglia, ma andai. C'era un gran freddo e lì in piazza vidi le facce meravigliose di ragazzi come me, ma già segnati dalla fatica. Accanto ai padri: portuali, metalmeccanici, contadini. A un certo punto Di Vittorio disse: "Mi chiamano il cafone io sono un cafone". Mi venne la pelle d'oca. Sono tornato a casa diverso. E ho detto grazie a mio padre». Un ragazzo di sedici anni di oggi si commuoverebbe?
«No, ma è perché non c'è nessuno come Giuseppe Di Vittorio. Ci si può commuovere davanti alla tv?».
Nessuna speranza
«Credo ancora nella forza della al tura anche se ne o sentito pari e poco in questa campagna elettorale. Del resto quando si ragiona come Berlusconi in termini di "speriamo che incontri un uomo ricco da sposare” per sistemarti è chiaro che dall'altra parte è difficile rispondere: no, leggete Goldoni, ascoltate Verdi».
Da Il Venerdì di Repubblica, 11 aprile 2008

di Federica Lamberti Zanardi, 11 aprile 2008

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