andrea
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lunedì 14 maggio 2001
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"l’anima schiacciata/soffocata dal corpo-mente macchina"
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Probabilmente il capolavoro più inafferabile di uno dei più inafferabili (anche a se stesso, come tutti i geni) registi della storia del cinema. Un cinema talmente puro quello del Casanova felliniano da lasciare ad “occhi spalancati”, stupiti per una visionarietà che nel suo “concretarsi” nel cinema-falsità tanto amato dal regista è così continuativamente libera da raggiungere un’intensità da Fellini mai più toccata. Proprio questa purezza all’epoca come oggi tende a sconcertare (e in alcuni casi a repellere) l’estimatore felliniano medio. La morte aleggia implacabilmente su ogni inquadratura anche “amorosa” del film, non solo e non tanto attraverso il cerone sul viso di Sutherland, il trucco delle mostruose donne e degli altri personaggi, o attraverso la dominante temporale di tipo notturno e nella scenografia settecentesca (che Fellini non vuole ricreare né filologicamente né sommariamente, anche se indaga il secolo utilizzando una cura formale che trova la sua forza nella capacità di svelare le nascoste miserie dell’epoca e ricorda in questo e nella successione pittorica di “quadri” l’approccio kubrickiano in “Barry Lindon”) ma perché “pulsa”(?!) dentro ogni cosa.
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Probabilmente il capolavoro più inafferabile di uno dei più inafferabili (anche a se stesso, come tutti i geni) registi della storia del cinema. Un cinema talmente puro quello del Casanova felliniano da lasciare ad “occhi spalancati”, stupiti per una visionarietà che nel suo “concretarsi” nel cinema-falsità tanto amato dal regista è così continuativamente libera da raggiungere un’intensità da Fellini mai più toccata. Proprio questa purezza all’epoca come oggi tende a sconcertare (e in alcuni casi a repellere) l’estimatore felliniano medio. La morte aleggia implacabilmente su ogni inquadratura anche “amorosa” del film, non solo e non tanto attraverso il cerone sul viso di Sutherland, il trucco delle mostruose donne e degli altri personaggi, o attraverso la dominante temporale di tipo notturno e nella scenografia settecentesca (che Fellini non vuole ricreare né filologicamente né sommariamente, anche se indaga il secolo utilizzando una cura formale che trova la sua forza nella capacità di svelare le nascoste miserie dell’epoca e ricorda in questo e nella successione pittorica di “quadri” l’approccio kubrickiano in “Barry Lindon”) ma perché “pulsa”(?!) dentro ogni cosa. Il meccanicismo sessuale e sentimentale di Casanova, derivato da una concezione puramente narcisistica quindi egoistica del sesso/rapporto umano, trova il suo dantesco contrappasso nella solitudine causata dall’incomprensione culturale, che non riguarda tanto l’incapacità di Casanova di affermarsi oltre che come “grande amatore” anche come grande letterato bensì, invece, si estrinseca attraverso la terribile valenza-essenza della solitudine come non-amore. E’ come se, in sostanza, il mondo non riconoscendolo come letterato gli negasse “l’amore sociale” che gli potrebbe concedere (onori, riconoscimenti, ardenti estimatrici...). Per ricordare solo una sequenza (tra le infinite memorabili) citerei quella iniziale in cui al clamore carnascialesco e bacchico dell’umanità si contrappone l’austero e placido silenzio subacqueo nell’inquadratura della divinità (che richiama alla mente per dimensioni il celebre capo di Costantino, frammento di una statua colossale, conservato en plein air nel cortile [non molto distante da Cinecittà!] del Palazzo dei Conservatori in Campidoglio) che anticipa e inaugura il rapporto/conflitto corpo-anima che permea il film.
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luc
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lunedì 11 febbraio 2008
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artificio totale
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Mi pare inevitabile fare un confronto fra quest'opera e "La città delle donne". I temi e i metodi sono simili: la Donna e la teatralità simbolica. "La città delle donne" si apriva e si chiudeva con il simbolo vaginale del tunnel ferroviario, "Casanova" con l'enorme testa della Grande Madre, signora assoluta delle acque e dell'oscurità, anche dell'oscurità del nulla, della morte (Madonna, Iside, Kali, Yemanjà, Dama del lago, ecc.). La gestione dei simboli in "Casanova" è più sapiente, meno invadente ma più profonda. E' stato detto che l'oscurità dominante, l'assenza del sole simboleggiano un angoscioso senso di morte, Eros e Thanatos. Non credo. L'oscuro di per sè è tradizionalmente stato associato al femminile.
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Mi pare inevitabile fare un confronto fra quest'opera e "La città delle donne". I temi e i metodi sono simili: la Donna e la teatralità simbolica. "La città delle donne" si apriva e si chiudeva con il simbolo vaginale del tunnel ferroviario, "Casanova" con l'enorme testa della Grande Madre, signora assoluta delle acque e dell'oscurità, anche dell'oscurità del nulla, della morte (Madonna, Iside, Kali, Yemanjà, Dama del lago, ecc.). La gestione dei simboli in "Casanova" è più sapiente, meno invadente ma più profonda. E' stato detto che l'oscurità dominante, l'assenza del sole simboleggiano un angoscioso senso di morte, Eros e Thanatos. Non credo. L'oscuro di per sè è tradizionalmente stato associato al femminile. E' stato detto che il carillon-uccello meccanico con la sua musica angosciante simboleggia la meccanicità dell'atto sessuale del grande amatore. Non credo. In psicoanalisi il "marchingegno", il "meccanismo", il "motore" di per sè sono simboli del pene, infatti Casanova lo porta sempre con sè, anche se ciò indica sicuramente una dissociazione fra la sua personalità e il suo organo. Ma è veramente interessante come nella nostra società si parli di "meccanicità" e assenza di "sentimento" solo a riguardo di sessualità che rompe le regole: mai avuto sentore di meccanicità, mancanza di sentimento e sessualità forzosa in coppie marito e moglie? Non ci vedete una schifosa meccanicità nel Viagra? Da noi, da almeno 2000 anni, la sessualità naturale è completamente distrutta, voi lo vedete solo in "Casanova", che almeno ci prova a fare qualcosa di più e in parte ci riesce pure. Certo poi invecchia, muore, si trasforma pure lui in bambola che gira meccanicamente, ma questo succede per tutti, tutti soccombiamo alla ruota del destino, alle leggi fisiche prive di sentimento rispetto alle quali siamo tutti ridicoli burattini votati al nulla, anche voi monogami che passate tutta la vita con un solo partner immersi nei "sentimenti". In poche parole, critici e pubblico mi sembrano più bigotti e moraleggianti che non il buon Fellini, che ci informa della delirante (e pagana) teoria di Agostino sulla fecondazione "auricolare" della madonna, criticata addirittura da una bambina, e ci presenta un completo compendio di simbologie della Mona nella scena della balena: forno, foresta, montagna, porta, ragnatela, imbuto, fiore, spirale (altro che simbolo solare...). Esilarante la scena della gara sessuale fra Casanova e Richetto in cui "l'homo sapiens vince il primitivo" (epilogo poco probabile). La teatralità è totale, l'artificialità è totale, nemmeno una scena fu girata in esterno fuori da Cinecittà. Un film di un uomo "all'antica", un uomo ossessionato dal Sesso e dalla Donna (vedi le frequenti donne giganti), un uomo dagli istinti magari frustrati, ma almeno PRESENTI. E un film più maturo che non "la città delle donne": lì, nonostante passino solo 4 anni, il quadro cambia completamente, lì il maschio è già un infimo vermetto fantozziano in balia delle superpoderose. Lì c'è già stato il "compromesso storico" sessuale, il cristianesimo alleato col femminismo: Casanova SCOPA, Snaporaz SOGNA. Una edificante e progressista evoluzione verso la spiritualità...
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aloysius
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sabato 10 novembre 2007
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il casanova di fellini
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Innanzitutto bisogna partire dal titolo: Il Casanova di Fellini; ovvero Casanova immerso nel liquido denso, allucinato, mortifero degli incubi più inconfessabili di Fellini. Una vita che si consuma al ritmo dell'inquitentae carillon, mostruoso, che con la sua musica odiosa, meccanica scandisce gli atti sessuali ridotti a movenze da manichini, goffe, ossessive, inutili. Burattini che si muovono in uno scenario di cartapesta, dove anche il mare in tempesta si riduce ad un telo nero, di plastica. E Casanova, che pure cerca di richiamare l'attenzione del mondo disumano in cui vive, sulla propria intelligenza, i propri studi, la propria umanità, non può che adeguarsi all'orrore, diventarne protagonista e vittima.
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Innanzitutto bisogna partire dal titolo: Il Casanova di Fellini; ovvero Casanova immerso nel liquido denso, allucinato, mortifero degli incubi più inconfessabili di Fellini. Una vita che si consuma al ritmo dell'inquitentae carillon, mostruoso, che con la sua musica odiosa, meccanica scandisce gli atti sessuali ridotti a movenze da manichini, goffe, ossessive, inutili. Burattini che si muovono in uno scenario di cartapesta, dove anche il mare in tempesta si riduce ad un telo nero, di plastica. E Casanova, che pure cerca di richiamare l'attenzione del mondo disumano in cui vive, sulla propria intelligenza, i propri studi, la propria umanità, non può che adeguarsi all'orrore, diventarne protagonista e vittima. In grado di soddisfare ogni suo più bieco desiderio, deve rinunciare a quello che ha veramente desiderato, la donna misteriosa, la gigantessa, la figlia dello scienziato, il riconoscimento (in vita) della propria produzione letteraria. Film splendido negli eccessi, commovente in alcuni particolari di realismo improvviso (vedi la scena degli enormi candelabri nel teatro), struggente nella ricostruzione del fallimento di un uomo, seguito dai suoi primi passi alla vecchiaia vergognosa, il suo ritratto imbrattato di escrementi. E il sogno finale: Venezia (rivedrò mai più Venezia?), il mare una lastra di ghiaccio, la bambola meccanica (abbandonata qualche anno prima con le gambe spalancate, il sesso in evidenza)che diventa l'ultima compagna, di un uomo ormai ridotto a legno, diventato la maschera di se stesso.
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salvatore
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mercoledì 21 novembre 2007
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capolavoro assoluto
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Rilettura "autoriale" da parte del genio visionario di Fellini del mito Casanova.Atmosfere tetre, tenebrose x esaltare il rapporto eros/thanatos tipico di un personaggio ke ha fatto dell'ars amandi un semplice esercizio ginnico privo di ogni sentimento. Ed infatti alla fine nn sono più corpi a congiungersi ma automi.Sublime l'ambientazione settecentesca mostrata nei suoi eccessi fino alla risibile mostruosità.Musica sempre pronta ad esaltare o sottolineare le varie situazioni:un perfetto equilibrio.X contemplare il bello assoluto,il bello dell'arte ci si deve liberare da ogni preconcetto e librarsi in alto in unione estatica col sublime.Fellini,artista puro x un cinema d'arte.
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joker 91
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sabato 9 luglio 2011
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un mito al servizio di fellini
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un film fantastico nei costumi,nelle ambientazioni ricreate tutte nella cinecittà del nostro bel paese,Suntherland è magnetico anche se ben truccato e portato quasi ad un livello irriconoscibile per somigiare quasi alla perfezione al mito di casanova.
Un viaggio insolito nei meandri della mente di un uomo ossessionato dal sesso e dalla donna,fellini regala un film maestoso che sarebbe stato un capolavoro se avesse visto una durata inferiore e qualche dialogo in meno,in molte scene si avverte uno sprazio di noia. Fellini regala comunque un prodotto degno da ricordare,vincitore di un oscar e un suntherland che mai più sarà cosi bravo
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jacopo b98
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venerdì 8 agosto 2014
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il grande capolavoro di fellini
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Le avventure del seduttore Giacomo Casanova (Sutherland): dopo la fuga dai Piombi di Venezia, le sue avventure francesi presso la Marchesa Durfè (Browne), che non gli fanno tuttavia dimenticare il più grande amore della sua vita di due anni prima, presso Parma, finito dopo appena una notte d’amore con la bella Henriette (Aumont). Dopo Parigi va a Londra, dove incontra una affascinante gigantessa (Allen, una delle donne più alte dell’epoca), dopodiché finisce a Dresda, in Svizzera e infine in Boemia dove, vecchio e ormai dimenticato, incontrerà la donna perfetta: una bambola meccanica (Lojodice), con la quale sognerà di ritornare nell’amata Venezia, per danzare con essa sul Canal Grande ghiacciato.
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Le avventure del seduttore Giacomo Casanova (Sutherland): dopo la fuga dai Piombi di Venezia, le sue avventure francesi presso la Marchesa Durfè (Browne), che non gli fanno tuttavia dimenticare il più grande amore della sua vita di due anni prima, presso Parma, finito dopo appena una notte d’amore con la bella Henriette (Aumont). Dopo Parigi va a Londra, dove incontra una affascinante gigantessa (Allen, una delle donne più alte dell’epoca), dopodiché finisce a Dresda, in Svizzera e infine in Boemia dove, vecchio e ormai dimenticato, incontrerà la donna perfetta: una bambola meccanica (Lojodice), con la quale sognerà di ritornare nell’amata Venezia, per danzare con essa sul Canal Grande ghiacciato. Tratto da l’Histoire de ma vie, libro di memorie dello stesso Casanova, sceneggiato dal regista con Bernardino Zapponi, è insieme a 8½ e La dolce vita il più grande film di Fellini in assoluto. La storia di Casanova, raccontata in modo visionario da Fellini, diventa un viaggio in un mostruoso universo femminile (donne gobbe, gigantesche, urlanti, spaventose, deformi…), ma soprattutto in un secolo, il ‘700, che ha perso ogni innocenza e moralità. E il lavoro scenografico è il più grandioso della carriera del regista: il secolo dei lumi ricostruito in studio a Cinecittà è uno dei più grandi esempi di film in costume della storia. Il lavoro su scenografie e costumi (premiati con l’Oscar) lascia perciò a bocca aperta, all’interno di un film che è un capolavoro in tutti i sensi. È il Fellini più visionario di sempre, eppure il più regolare nella tecnica narrativa (ci sono sì flashback, ma lo spettatore non fa alcuna fatica a comprendere ciò che è presente e ciò che è passato), il più classico nella regia, il più internazionale di sempre. Insomma un capolavoro tragico, talvolta divertente, abbagliante per l’occhio, e soprattutto tremendamente commovente (la scena finale in cui Casanova riesce finalmente, in sogno, a tornare a Venezia portandosi dietro la bambola meccanica è uno dei picchi più alti del cinema felliniano, oltre ad essere commovente fino alle lacrime). E fra l’altro, pur essendo un film lungo, non annoia mai per la sua estrema varietà e per il notevole livello di coinvolgimento a cui è in grado di portare lo spettatore. Molte le scene memorabili: il Carnevale di Venezia a inizio film, le scene d’amore con la suora (Clementi) a inizio film, ma anche le grandi scene musicali che paiono quasi delle buffe operette musicali. E se Fellini raggiunge le sue vette più alte non si può non parlare a questo punto del grande Donald Sutherland (doppiato splendidamente da Gigi Proietti), che qui ci lascia non solo la sua più grande interpretazione, ma anche una performance monumentale, che sorprende ad ogni scena. Grandi la fotografia di Giuseppe Rotunno e le musiche di Nino Rota, commoventi e divertenti al tempo stesso. Il montaggio è di Ruggero Mastroianni, fratello del Marcello nazionale.
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francesco di benedetto
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venerdì 12 gennaio 2007
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fra morte e vita, autocontrollo e abbandono
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Da parte dell’autore un tentativo di appercezione che coinvolga in primis la propria dimensione più direttamente carnale, uno spalancarsi voluttuoso, insistito delle interiora per esserne risucchiati in un viaggio all’interno e al fondo del corpo: fiamme, calore, volti esasperati e sconvolti dall’eccesso, vortici e tempeste, umoralità e impulsività esternate senza freni inibitori nella convulsione caotica del movimento; il tutto sublimato da una messa in scena dalle istanze fortemente estetizzanti nella gestione, capillarmente estesa ad ogni singolo momento compositivo, delle inquadrature, nonostante la dimensione quanto mai terrea, ipertrofica e cumulativa del materiale corporeo presente nelle stesse.
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Da parte dell’autore un tentativo di appercezione che coinvolga in primis la propria dimensione più direttamente carnale, uno spalancarsi voluttuoso, insistito delle interiora per esserne risucchiati in un viaggio all’interno e al fondo del corpo: fiamme, calore, volti esasperati e sconvolti dall’eccesso, vortici e tempeste, umoralità e impulsività esternate senza freni inibitori nella convulsione caotica del movimento; il tutto sublimato da una messa in scena dalle istanze fortemente estetizzanti nella gestione, capillarmente estesa ad ogni singolo momento compositivo, delle inquadrature, nonostante la dimensione quanto mai terrea, ipertrofica e cumulativa del materiale corporeo presente nelle stesse.
Come contrappunto a un viaggio sensorio tanto calamitante, estremo e viscerale quanto maschilisticamente solipsista, mentale ed irreale, sorprendono nel protagonista narcisismo puerile, controllo e freddezza nel relazionarsi ad un’alterità così immensa, irretente e procellosa, oceano di desiderio e di frustrazione cui è naturale abbandonarsi; di qui i tratti ironici e beffardi con cui viene dipinto il personaggio e una sorta di presa di distanza “sentimentale” da parte dell’autore, che fa tutt’uno con la presa di distanza del personaggio stesso nei confronti delle donne che si ritrova a possedere; di qui il rilievo attribuito nell’opera al parossistico e al diverso quale tangibile risorsa di stupore, alito vitale, possibilità concreta di estraniarsi dalla propria cecità e impotenza emotive, dalla propria goffaggine esteriore, rivelatisi poi puntualmente inidonei a sortire alcun effetto sul protagonista. In questo raffreddamento dell’umoralità, in questo suo tendere all’automa, ad un modello formale asettico nella mera collezione dei coiti, l’esperienza esistenziale del Casanova si avvicina allo spaccato antropologico, parimenti settecentesco, che ci dà Barry Lyndon.
D’altra parte la rappresentazione del femminile, in tutta la sua carica eversiva di espressività, nell’estremità e nel calore dell’ostentazione carnale, farebbe pensare ad un atteggiamento quanto meno di sincerità, abbandono, tuffo eroico in un abisso che, certo, porterà alla malattia, alla prostrazione e consumazione fisica, alla vecchiaia. Al personaggio concreto sembrerebbe così accompagnarsi uno virtuale, proiezione di quello che il primo non ha voluto o non è riuscito ad essere, disposto com’è a vivere fino in fondo, fino al travolgimento e alla rovina, il fisicamente altro da sé e le proprie pulsioni, in sintonia emotiva con l’autore
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paolo 67
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lunedì 7 novembre 2011
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il nomade, il bidonista, il vitellone, il regista
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"Casanova è la vita! E' la forza, il coraggio, la fiducia! E' la gioia di vivere. Feffy, perchè ne hai fatto uno zombie?" diceva a Fellini il produttore americano della Universal. Casanova una marionetta funebre, solo Fellini poteva osare tanto. Il grande seduttore in chiave psicoanalitica è la geniale intuizione di Fellini per continuare in maniera decisiva il discorso iniziato con "La dolce vita" puntando la macchina da presa sul pescione mostruoso e scendendo nel ventre, nel sacco amniotico della civiltà mediterranea. A quel mostro nel quale Marcello vedeva la propria anima fa riferimento il testone di cartapesta (che oggi campeggia all'entrata di Cinecittà) di Casanova.
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"Casanova è la vita! E' la forza, il coraggio, la fiducia! E' la gioia di vivere. Feffy, perchè ne hai fatto uno zombie?" diceva a Fellini il produttore americano della Universal. Casanova una marionetta funebre, solo Fellini poteva osare tanto. Il grande seduttore in chiave psicoanalitica è la geniale intuizione di Fellini per continuare in maniera decisiva il discorso iniziato con "La dolce vita" puntando la macchina da presa sul pescione mostruoso e scendendo nel ventre, nel sacco amniotico della civiltà mediterranea. A quel mostro nel quale Marcello vedeva la propria anima fa riferimento il testone di cartapesta (che oggi campeggia all'entrata di Cinecittà) di Casanova. Nato da una firma messa a cuor leggero sulla proposta di un produttore, girato con un'antipatia verso il personaggio che a conti fatti si rivelerà un inconscio amore e ammirazione ("Un tipo di italiano che c'è da augurarsi rinasca continuamente, ne avessimo così in politica, cinici in maniera poetica" confidava a Goffredo Fofi Fellini in una delle sue ultime interviste radiofoniche) ma che intanto definì un campo di battaglia teatro il povero Sutherland, continuamente frustrato sulle sue aspettative ma fermo nella professionalità e nell'amore per Fellini, sottoposto ogni giorno a ore di trucco che crearono un tipo diafano, inafferrabile, spettrale, perfettamente rappresentativo di quella vita fantasticata, disemozionata, smemorata in una specie di acquario, "un balletto meccanico, frenetico e senza scopo, da museo delle cere elettrizzato" (Fellini) che voleva rappresentare l'autore. Un individuo non cresciuto, sepolto per sempre nel ventre della madre. Come in "Amarcord" il genio di Fellini sintetizzava la piattezza dell'Italia fascista nell'evidenza della ricostruzione, ad un certo punto quasi esibita, qui arriva, in uno dei culmini di tutta la sua carriera, a identificare lo sguardo del libertino settecentesco col gelo dell'ultima sequenza, quello dello sguardo di Casanova moralista (e di Fellini) che si posa su tutto un secolo, colla morte dietro la facciata lussuosa e gaudente, in una visione allarmante e profetica, da simbolismo junghiano, che conclude il discorso iniziato col "Toby Dammit" e proseguito nel "Satyricon", "Roma" e "Amarcord" sulla decadenza della civiltà e l'apocalisse del destino umano. Perfetto Sutherland, il cui sguardo vagamente femmineo, timoroso, stupito, la sua neghittosità e pigrizia, il suo lasciarsi assorbire dalla dolce vita settecentesca hanno più di un punto in comune col Marcello del film del 1960. Nel panorama femminile, scelto in tutta la gamma dal deforme al bello ma con qualcosa di luttuoso (sottolineato dagli amplessi su letti lignei che hanno l'aspetto di una bara), spiccano una imponente Olimpia Carlisi nei panni dell'entomologa, Margareth Clementi interprete di un personaggio con lo stesso nome de "La dolce vita" e l'ambigua Tina Aumont. Paragonato da George Simenon all'opera di Goya, e prediletto dallo stesso autore, "Casanova" è uno di quei film destinati a crescere nel tempo. Cinema che dimostra le potenzialità dell'arte onirica, completamente risolta nella perfezione formale di in una serie di quadri (parzialmente ispirati a Pietro Longhi, pittore dell'effimero della Venezia in declino della fine del XVIII° secolo), è anche una possibile variante sul tema dei fili invisibili che controllano l'illusione di dirigere la (propria) vita, che ha avuto altri esempi nella Storia, altrettanto famosi ma non necessariamente fortunati.
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francesco di benedetto
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giovedì 1 dicembre 2005
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qualche diavoleria sul casanova
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Dopo 8 1/2 una nuova autobiografia dal profondo, un nuovo bilancio esistenziale. E se prima crisi, vuoto e mediocrità venivano sublimati nell'inganno seduttivo del prestigiatore, nel dinamismo trascinante dello spettacolo, ora è l'abisso, cupissimo e putrescente spalancarsi delle interiora per esserne risucchiati in un viaggio all'interno e al fondo del corpo: fiamme, calore, volti esasperati e sconvolti dall'eccesso, vortici e tempeste, umoralità e impulsività esternate senza freni inibitori nella convulsione caotica del movimento; in opposizione a tanta visceralità di immaginario, colpiscono invece nel protagonista freddezza e controllo, narcisismo puerile e distanza solipsistica nel relazionarsi ad un'alterità così immensa, irretente e procellosa, oceano di desiderio e di frustrazione cui è naturale abbandonarsi; di qui il rapporto malato con la propria e altrui corporeità, la necessità di consumare la donna e di essere da lei consumato, la coazione interiore alla ripetizione meccanica e apatica dell'atto sessuale, di qui il gelo e la neve finali, ironico contrappunto paesaggistico alla delicata e soave stasi dell'automa, desiderio e "proiezione" ultima (cit.
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Dopo 8 1/2 una nuova autobiografia dal profondo, un nuovo bilancio esistenziale. E se prima crisi, vuoto e mediocrità venivano sublimati nell'inganno seduttivo del prestigiatore, nel dinamismo trascinante dello spettacolo, ora è l'abisso, cupissimo e putrescente spalancarsi delle interiora per esserne risucchiati in un viaggio all'interno e al fondo del corpo: fiamme, calore, volti esasperati e sconvolti dall'eccesso, vortici e tempeste, umoralità e impulsività esternate senza freni inibitori nella convulsione caotica del movimento; in opposizione a tanta visceralità di immaginario, colpiscono invece nel protagonista freddezza e controllo, narcisismo puerile e distanza solipsistica nel relazionarsi ad un'alterità così immensa, irretente e procellosa, oceano di desiderio e di frustrazione cui è naturale abbandonarsi; di qui il rapporto malato con la propria e altrui corporeità, la necessità di consumare la donna e di essere da lei consumato, la coazione interiore alla ripetizione meccanica e apatica dell'atto sessuale, di qui il gelo e la neve finali, ironico contrappunto paesaggistico alla delicata e soave stasi dell'automa, desiderio e "proiezione" ultima (cit.) del personaggio.
Due dunque sembrerebbero gli atteggiamenti e forse le idee che l'autore nutriva nei confronti di Casanova. Da un lato una spietatissima (auto)fustigazione, una presa di distanza "sentimentale" che fa tutt'uno con la presa di distanza del personaggio stesso nei confronti delle donne che si ritrova a possedere. In questo raffreddamento dell'umoralità, in questo suo tendere all'automa, ad un modello formale asettico nella mera collezione dei coiti, l'esperienza esistenziale del Casanova si avvicina allo spaccato antropologico, parimenti settecentesco, che ci dà Barry Lyndon. D'altra parte la rappresentazione del femminile, in tutta la sua carica eversiva di espressività, nell'estremità e nel calore dell'ostentazione carnale farebbe pensare al contrario ad un atteggiamento di sincerità, abbandono, tuffo eroico in un abisso che, certo, porterà alla malattia, alla prostrazione e consumazione fisica, alla vecchiaia. Il personaggio concreto sembrerebbe così accompagnarsi ad uno virtuale, proiezione di quello non ha voluto o non è riuscito ad essere, disposto com'è a vivere fino in fondo, passionalmente, fino al travolgimento e alla rovina, il fisicamente altro da sé e le proprie pulsioni, in sintonia emotiva con l'autore.
Bibliografia di riferimento: "Paura e desiderio" di Ghezzi
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francesco di benedetto
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lunedì 19 dicembre 2005
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l'alterità, la donna, il sesso in fellini
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Mai come in Fellini ho visto rappresentata in maniera così viscerale e conturbante la pulsione erotica maschile nei confronti della donna. Mi riferisco anche ai disegni. Per fare un esempio Casanova è stato considerato un film squisitamente cerebrale in relazione alla presa di distanza critica e demistificatoria dell’autore nei confronti del protagonista; prescindendo però dall’universo sessuale meramente asettico e meccanicistico del personaggio concreto l’atteggiamento dell'autore nell’esplorazione del femminile mi sembra di segno del tutto opposto; e il film diventa allora un viaggio nel sesso, un viaggio all’interno del corpo, fra tessuti, umori e micro-particelle organiche in perenne, sfibrante movimento; un viaggio nella donna, all’interno della donna la cui immagine così autenticamente intima, profonda e viscerale potrà anche repellere per l’estremità e la forza delle tinte.
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Mai come in Fellini ho visto rappresentata in maniera così viscerale e conturbante la pulsione erotica maschile nei confronti della donna. Mi riferisco anche ai disegni. Per fare un esempio Casanova è stato considerato un film squisitamente cerebrale in relazione alla presa di distanza critica e demistificatoria dell’autore nei confronti del protagonista; prescindendo però dall’universo sessuale meramente asettico e meccanicistico del personaggio concreto l’atteggiamento dell'autore nell’esplorazione del femminile mi sembra di segno del tutto opposto; e il film diventa allora un viaggio nel sesso, un viaggio all’interno del corpo, fra tessuti, umori e micro-particelle organiche in perenne, sfibrante movimento; un viaggio nella donna, all’interno della donna la cui immagine così autenticamente intima, profonda e viscerale potrà anche repellere per l’estremità e la forza delle tinte. Perchè escludere la dimensione più direttamente sessuale dall’universo felliniano? E aggiungo, a costo di cadere nel banale e nel già sentito, dimensione che costituisce il centro nevralgico e simbolico nella poetica felliniana o comunque la scintilla salutifera di catarsi: lo stupore, l’emozione, il desiderio viscerale e triviale di fusione e al contempo lo sguardo satirico e penetrante di fronte all’altro da sè, così imponente e pregnante nella nostra esperienza individuale da rischiare anche di esserne travolti.
Nella diversità dunque, nella bellezza, nel mistero, nel vigore espressivo, nei richiami del mondo che ci circonda l’autore troverà la valvola più significativa di salvezza dai propri demoni interiori: la possibilità di convogliare la propria irrequietudine, questo surplus di energie altrimenti rinserrato corrosivamente dentro di sè, verso l'esterno, sublimandolo in sentimento d’amore e d’ironia, vissuti ed esperiti anche e soprattutto tramite le pulsioni primarie della propria corporeità. Potrà poi infastidire o intimorire l’immaginario di quei donnoni; io preferisco invece leggerlo come Truffaut come “esaltazione” energica e incontenibile “della vita” da parte di un artista innamorato di una vita che ci possa coinvolgere in tutta la sua irrefrenabile e inesauribile dirompenza espressiva
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