
Pablo Larraín dirige una favola tratta da una tragedia reale. Con Kristen Stewart nei panni di Lady D. Disponibile su CHILI. GUARDA SUBITO IL FILM »
di Luigi Coluccio
Quanti modi ci sono per raccontare una storia? Quante storie ci sono dentro lo stesso evento? Pablo Larraín sa che ci sono tanti modi e tante storie – e ne tiene conto. Tutta la sua filmografia ruota attorno questo unico centro, sorta di motore immobile che spinge avanti e indietro, a scatti, a lato, tutti i suoi titoli. Che sia la dittatura di Pinochet, i crimini della Chiesa o l’omicidio Kennedy ogni cosa si piega a questa semplice e comprensibile formula: ci sono tanti modi e tante storie. O, per riportare il cartello che apre Spencer - disponibile in streaming su CHILI -, “a fable from a true tragedy”, una favola da una tragedia reale. Già, perché Larraín decide di fare proprio questo, mettersi davanti al corpus storico-mediatico che ha avvolto – avvolge – la figura della principessa Diana e pian piano, con attenzione e precisione, incidere questo opus per restituirci il suo personale bassorilievo, la sua opera.
Traslando in un puro racconto di finzione testimonianze, ricostruzioni, memoir, Larraín prende uno script di Steven Knight e lo fa intimamente suo, continuando impassibile nella compilazione di una sua personale pseudo-cronistoria di avvenimenti e personaggi del XX° secolo. Spencer, infatti, è un sottile gioco di specchi che rimanda verso un’immagine impossibile, cioè il compimento di quel percorso emotivo, personale e – perché no? – politico che l’intrusa Diana Spencer raggiunge e che da lì a poco la porta ad allontanarsi dalla famiglia reale inglese.
Costretta nei tre dickensiani giorni di Natale del 1991 (Christmas Eve, Christmas Day e Boxing Day), questa favola tratta da una tragedia reale è una sorta di kammerspiel che al posto di un interno borghese ha come palcoscenico la residenza reale di Sandringham House, dove la regina Elisabetta e tutta la sua coorte-famiglia trascorrono il tempo da metà dicembre a febbraio (perché ogni cosa si deve fare in un tempo e in luogo). Ed è qui che giunge la principessa Diana, in macchina, da sola, per ultima, assommando ancora una volta ritardi, strappi al protocollo, mancanza di formalità; ed è qui che si consumerà il definitivo distacco con la Corona, per una sorta di motu proprio che due decenni dopo troverà riflesso nelle vicende di Henry e Meghan.
Larraín e Knight si posizionano proprio in questi tre giorni, facendo emergere in modo finzionale i veri tormenti interiori di una principessa irrimediabilmente estranea alla “forma” dei Windsor, nonostante i suoi nobili natali e la sua prossimità anche ideale con la famiglia reale essendo lei nata e cresciuta a Park House, residenza degli Spencer posta proprio dentro i confini di Sandringham House.
Diana è così schiacciata tra l’occhio assoluto della storia e quello del cinema, ed è solo quando questi collidono fino a sovrapporsi che lei sembra trovare pace nel dolore, fuga nella costrizione – le visioni, le ferite, i simbolismi giù giù fino all’abisso del fantasma di Anna Bolena.
E la gabbia costruita da Larraín non è da meno di quella tirata su dai Windsor, con continui grandangoli a storpiare, dilatare, quasi raddoppiare l’architettura opprimente di Sandringham House (in realtà un collage di varie residenze e castelli tedeschi), fatta sì di giardini e vetrate e saloni, ma circondati da nebbia, tende, porte, a negare ogni visione, ogni vissuto. E tanta è la necessità di sottrarsi per tornare ad essere, di – semplicemente – respirare, che se anche alla domanda iniziale di Diana se la uccideranno noi conosciamo la risposta e quindi la fine di questa fuga, ora tocca solo scappare, non verso la morte ma verso la libertà.
{{PaginaCaricata()}}