
Selezionato alla Settimana della Critica a Cannes, il film è stato presentato in anteprima italiana a France Odeon.
di Giovanni Bogani
Prendere o lasciare: Les amours d’ Anaïs è un film che ti travolge con il suo ritmo di minuetto, col suo tourbillon de la vie tutto francese, con il suo fluire rohmeriano di chiacchiere, pensieri, dialoghi mai banali e mai quieti, che scorrono come un ruscello di montagna, nessuna pausa, nessun momento per fermarsi a riflettere. Così come non ha mai un momento per fermarsi a riflettere, ma solo attimi di svolta improvvisa, intermittenze del cuore, slittamenti progressivi del piacere e del desiderio la sua protagonista, Anaïs.
Anaïs che vive leggera come una farfalla, seminando panico, sconcerto, sbigottimento attorno a sé: dribblando ogni aspettativa degli altri, arrivando in ritardo, seducendo, abbandonando, senza chiedere mai scusa, senza mai chiedere aiuto, senza dare mai niente per scontato. Personaggio complesso, egoista, divertente, volatile, ma anche segnato da un male di vivere che si insinua sottile nelle pieghe del racconto, che si insinua sottile nel vestito leggero di lei.
“Lei”, l’attrice Anaïs Demoustier, è una folgorazione. Travolgente, vitale, capace di dare al film i ritmi delle sue corse, del suo parlare incessante: di trascinarlo, come un violino si porta dietro l’orchestra. Trentaquattro anni, un premio Romy Schneider, un César vinto per Alice et le maire di Nicolas Pariser, e una filmografia già imponente, da Haneke a Tavernier a Guédiguian.
È un film letterario senza essere soffocante, filosofico senza essere pedante, Les amours d’Anaïs, visto alla Semaine de la critique di Cannes e presentato in anteprima italiana a France Odéon, festival di cinema francese a Firenze. Certo, se lo guardi con occhio torvo, ci sono tutti i cliché del cinema che carezza i velluti e le luci dorate, le carte ingiallite e le ombre spesse degli ambienti letterari: c’è la jeune étudiante che bazzica Saint-Germain-des-Près, è iscritta alla Sorbona, fa una tesi sulla “scrittura della passione” – guarda un po’ – nel Diciassettesimo secolo. E ci sono, insieme alla Studentessa, la Scrittrice e l’Editore, quasi un triangolo alleniano, da Manhattan (guarda la video recensione) in riva alla Senna.
È un milieu di intellettuali fragili, sgualciti, immalinconiti: la scrittrice ormai ha perso l’amore per se stessa, e forse anche il sapore della vita, ma si finge un’edonista incurabile e appagata – interpretata da una Valeria Bruni Tedeschi sorprendentemente sobria, sommessa, con una recitazione tutta “in levare”, senza manierismi, tic, sovreccitazioni, tutta sostanza e pienezza di maturità fisica ed espressiva: sublime. E c’è l’editore, affascinato dall’idea di innamorarsi di una ragazza tanto più giovane, ma in realtà incapace di rinunciare alla sua vita di sempre, incapace di un desiderio davvero grande, impantanato nelle sabbie mobili del cliché dell’adulterio borghese: lo interpreta un Denis Podalydès un po’ tenuto in ombra dalle due sfolgoranti protagoniste del film.
E infine c’è lei, Anaïs, che corre sul filo dell’incoerenza, dell’incoscienza, dell’incostanza. In bilico fra la voglia di fare qualcosa di grande e l’incapacità di fare anche solo qualcosa di piccolo, come rispettare la parola data o lavorare mezza giornata. E che vede nella scrittrice interpretata da Valeria Bruni Tedeschi un ideale, un polo di attrazione, un punto di approdo.
Anais corre. Non come Franka Potente, braccata, in Lola corre di Tom Tykwer: nemmeno come Dustin Hoffman nel Maratoneta, che ha visto la morte col volto di un dentista nazista, e corre col cuore che gli scoppia; neppure come Rocky all’alba, nella sua Philadelphia, per esultare in cima alla scalinata. Forse corre come Tom Hanks in Forrest Gump: una corsa infinita, innocente, quasi senza un perché. È una questione di musica, di ritmo vitale.
Anaïs corre con le gambe nude e un vestitino leggero, corre con un mazzo di fiori in mano nella prima scena del film, inseguita dalla macchina a spalla di un operatore disperato. Corre su per le scale di un palazzo, su per sedici piani, perché ha paura degli ascensori, ha paura di sentirsi chiusa, intrappolata. Una paura che forse è il tratto caratteristico dell’adolescenza – anche quando si protrae oltre i cinquant’anni: aver paura di fermarsi, di decidere, di volere davvero qualcosa o qualcuno. Anaïs, per tutto il film, sa solo quello che non vuole, sa solo scappare. Persino da una madre che ama, interpretata da Anne Canovas che in poche, memorabili scene, carica di densità, di gravità il film. Una madre che avrebbe bisogno della presenza di Anais, perché il tempo in questa vita non è mai infinito. Quando piange, Anais lo fa da sola, senza farsi vedere. Preferisce che gli altri la vedano saltellare leggera da una promessa all’altra, da una fuga all’altra.