Mundruczó comprime il tempo e lo spazio per sondare il futuro. Da giovedì 27 gennaio al cinema.
di Marzia Gandolfi
Piombati nell’inferno concentrazionario tre soldati polacchi provano a lavare l’impossibile. A turno gettano secchi d’acqua sul pavimento, insieme spazzano con vigore le pareti fino a rimuovere dall’intonaco ciocche di capelli intrecciati come un enigma. Poi un grido sorge da quel luogo sotterraneo dove la morte inghiottiva in massa. È il pianto vivo di Eva. Anni dopo, il trauma di quella bambina, sopravvissuta alla Shoah, passa come una maledizione a sua figlia, Lena, che ha un figlio adolescente e una vita senza pace, e poi al nipote, Jonas, che vive con la madre a Berlino e si innamora per scongiurare le aggressioni razziste di un nuovo secolo. Tre esistenze, la stessa famiglia marcata dalla Storia.
Dall’autobiografia ieratica di Imre Kertész (“Essere senza destino”), che ha ispirato l’episodio di apertura (“Eva”), alla “memoria riflessiva” di Primo Levi (“I sommersi e i salvati”), la ‘poesia’ diventa (forse) la migliore traduzione possibile del carattere metafisico di un’esperienza di disumanizzazione, un’esposizione testimoniale evocativa per dire la sua tragica opacità.
Kornél Mundruczó, ricorrendo ancora una volta alla virtuosità del piano-sequenza, centrale in Pieces of a Woman, gira un racconto in tre atti di risonanze intime di una tragedia storica su una famiglia ungherese.
Mundruczó, autore radicale che continua la sua esplorazione delle identità e degli avvenimenti che ‘forgiano’ l’Europa (Una luna chiamata Europa), interroga le tracce lasciate dalla Shoah su generazioni differenti. Attraverso Eva, Lena, Jonas il film traccia la cartografia di un inconscio ‘di famiglia’ mai placato. Il formato quasi quadrato (4:3) rinforza il sentimento di un film ritratto piuttosto che affresco.