Titolo internazionale | Egg |
Anno | 2019 |
Genere | Drammatico |
Produzione | Mongolia |
Durata | 100 minuti |
Regia di | Quan'an Wang |
Attori | Dulamjav Enkhtaivan, Aorigeletu, Norovsambuu Batmunkh, Gangtemuer Arild . |
Tag | Da vedere 2019 |
MYmonetro | 3,46 su 2 recensioni tra critica, pubblico e dizionari. |
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Ultimo aggiornamento lunedì 11 febbraio 2019
Durante una notte oscura un giovane poliziotto ha una relazione con una mandriana che rimane incinta.
CONSIGLIATO SÌ
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Una jeep con a bordo due poliziotti si avventura nello sterminato paesaggio notturno della steppa mongola, fermandosi soltanto quando la luce dei fari rivela il corpo senza vita di una donna che giace nuda nell'erba. Inizia così l'indagine sul delitto, che coinvolgerà le autorità locali, in particolare il comandante e una giovane recluta, i dottori del paese più vicino, e una mandriana in sella a un cammello, il cui fucile è l'unico strumento in grado di annullare le enormi distanze del territorio.
Le premesse sono quelle del giallo, ma bastano pochi minuti per capire che il tipo di giallo che interessa di più a Wang Quan'an è quello bruciato dei fili d'erba sferzati dal terrificante vento della steppa, e quello ambrato degli stupendi tramonti che riducono gli esseri umani a comprimari dell'inquadratura.
Il delitto e l'indagine che ne segue sono pieni di ellissi; c'è più vita che morte, più filosofia che castigo, nel settimo film del regista cinese, il quale aveva già dimostrato una fascinazione per la Mongolia nel film che gli valse l'Orso d'Oro a Berlino nel 2007, Il matrimonio di Tuya.
Tornando a quelle atmosfere bizzarre (dopo la parentesi grandiosa e ingessata di White Deer Plain), Quan'an sfrutta le performance sorprendenti di attori non professionisti e l'assenza di una vera e propria sceneggiatura per evocare un mondo fatto di connessioni spezzettate, in cui le figure di autorità stanno tutte per andare in pensione e le forze più sovversive sono quelle fertili e femminili dei personaggi che vengono dai margini.
Come se non bastasse, a questa intrigante meditazione sui simboli che generano la vita, Öndög aggiunge un livello di pura maestria tecnica che da solo giustificherebbe il film.
Il direttore della fotografia francese Aymerick Pilarski lavora con colori e tonalità straordinarie su composizioni che accentuano l'orizzontalità del paesaggio, per poi ripiegare in interni ammorbidendo lo sguardo della macchina da presa con il fuori-fuoco ogni volta che i personaggi si spogliano, o fanno l'amore.
Il calore e il pathos di questi momenti, uniti a un'ironia che scaturisce dal movimento più che dal linguaggio (su tutti una danza improvvisata in una notte viola elettrico), rendono meno asettica la bellezza pittorica e ricompensano l'attesa dello spettatore durante i lunghi tratti, diciamo così, non proprio concitati. Öndög, d'altro canto, vuol dire "uovo" in mongolo, e un uovo non è altro che un elogio dell'attesa.
Un cameracar nell'aurora della steppa mongola. I fari del fuoristrada tagliano il buio della notte e l'erba secca mentre i primi bagliori del giorno tinteggiano l'orizzonte, la polvere di una mandria di cavalli selvatici che corrono spaventati si leva inattesa, poi le voci fuoricampo dei poliziotti che perlustrano la zona si zittiscono all'improvviso quando tra gli sterpi si intravede all'improvviso [...] Vai alla recensione »