“… voglio vivere come i gigli nei campi, come gli uccelli del cielo campare,
voglio vivere come i gigli dei campi, e sopra i gigli dei campi volare.”
A Pà - Francesco De Gregori (dedicata a Pier Paolo Pasolini)
C’era una volta l’Inviolata, una remota tenuta coltivata a tabacco. La piccola comunità di contadini che la lavorava era da tempo isolata dal resto del mondo per il crollo del ponte lungo la strada che portava in città. Mezzadri, o meglio, servi della dispotica marchesa Alfosina De Luna, coltivavano faticosamente i suoi campi e vivevano con la frugalità dei loro avi, quasi in indigenza, ignorando il grande inganno che la perfida marchesa aveva escogitato.
Lazzaro felice potrebbe iniziare anche così, come una fiaba, perché - per quanto bislacca e libera - la linea narrativa della storia è quella di una fiaba neorealista.
Come in una fiaba ci sono i cattivi, nettamente distinti dalle vittime, sfruttate e truffate senza possibilità di riscatto. Come nelle fiabe ci sono elementi magici e spirituali, simbologie ataviche come il lupo ammansito dal bene, di francescana memoria, e salti spazio-temporali tra la campagna e la grande città.
Soprattutto c’è Lazzaro, un ragazzo orfano, ingenuo e candido al limite della santità. Lazzaro è sempre felice, servizievole con tutti anche se tutti abusano della sua bontà, “semplicemente, crede negli altri esseri umani”. Anche l’amicizia nei confronti del bizzoso marchesino Tancredi è pura, senza altri fini.
Risvegliatosi nel mondo odierno dopo la caduta nella rupeandrà in città alla ricerca dell’amico e dei vecchi compagni dell’Inviolata, scoprendo che sono tutti invecchiati e abbruttiti mentre lui è rimasto lo stesso, giovane e buono.
Nella fredda e caotica società metropolitana non c’è posto per i poveri contadini liberati dall’inganno della marchesa, come sono fuoritempo lo sguardo sereno e la bontà disinteressata di Lazzaro. La “follia” della felicità pura e del credere incondizionatamente nel prossimo, al giorno d’oggi può essere molto pericolosa.
E Lazzaro dovrà amaramente farne i conti.
Circoscrivere lo splendido film di Alice Rohrwacher nel perimetro di una parabola fiabesca, tuttavia, è senz’altro riduttivo. La poetica della regista fiorentina ha solide radici sociali e politiche, capaci di interpretare il passato e di leggere l’attualità di una società che,pur cambiando rapidamente,per gli esclusi resta sempre uguale a se stessa. Si possono cogliere vari richiami al cinema di Ermanno Olmi nella parte agreste e alle tematiche di Pier Paolo Pasolini in quella ambientata in città.
Se la prima parte di Lazzaro felice racconta, senza nostalgia, un mondo contadino demitizzato, in cui i braccianti sono sfruttati ma conservano le loro tradizioni, con la seconda e con la fine della mezzadria – abolita in Italia nel 1982 – vengono sradicati dalla loro cultura e privati anche del rapporto con la terra, in nome di uno sviluppo economico privo di progresso sociale. Con le parole della regista,“la fine della civiltà contadina e la migrazione ai bordi della città ha portato quei contadini da un medioevo sociale a un medioevo umano”. Ai margini della metropoli i contadini diventano dei reietti, degli emarginati senza poter essere nemmeno sottoproletariato. Senza la loro cultura perdono anche l’innocenza. Solo Lazzaro saprà ancora riconoscere e raccogliere la cicoria che cresce lungo la ferrovia, i vecchi compagni sono invece assuefatti a rubare cibo scadente confezionato.
Lo sguardo cinematografico di Alice Rohrwacher è delicato e poetico, mai sopra le righe, sincero e generoso come quello di Lazzaro. Con questo terzo lungometraggio, anche questa volta osannato e premiato al Festival di Cannes, la giovane registaprosegue il suo percorso autoriale mantenendo quella personalissima cifra stilistica che l’ha imposta tra i migliori cineasti dell’ultima generazione. Ed è coraggiosa anche nelle scelte stilistiche come, per esempio, girare in super 16mm e non in digitale o nel selezionare per il cast dell’Inviolata veri contadini del posto. Eccellenti anche le interpretazioni dei protagonisti, su tutti il sorprendente esordiente Adriano Tardiolo che magnifica Lazzaro con l’innocenza stralunata del suo sguardo.
Proprio quel suo sorriso serafico e quella gentilezza talmente anacronistica da diventare un gesto rivoluzionario sono il regalo più grande che Lazzaro potesse farci.
[+] lascia un commento a sergiodalmaso »
[ - ] lascia un commento a sergiodalmaso »
|