Anno | 2015 |
Genere | Documentario |
Produzione | Italia, Francia, Belgio |
Durata | 92 minuti |
Regia di | Giovanni Cioni |
Attori | Silvano Lippi . |
Tag | Da vedere 2015 |
MYmonetro | 3,25 su 1 recensioni tra critica, pubblico e dizionari. |
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Ultimo aggiornamento sabato 13 giugno 2015
Nel 1943 Silvano Lippi è un ufficiale italiano in Grecia. Ma con la caduta di Mussolini e la fondazione della Repubblica di Salò, alla quale rifiuta di aderire, la sua vita cambia.
CONSIGLIATO SÌ
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Per Claude Lanzmann (Shoah) è la testimonianza la forma privilegiata per dire l'esperienza concentrazionaria e rendere conto del fenomeno genocidario. Il bisogno di raccontare agli altri, di fare gli altri partecipi, fu un "impulso immediato e violento" sorto già all'interno dei lager con lo scopo evidente di liberarsi dall'orrore. Le prime testimonianze, prodotte a ridosso di una guerra che si voleva soprattutto dimenticare, non trovarono ascoltatori sensibili e disposti. Perché era difficile rendere conto dell'inimmaginabile, perché la società voleva fortemente voltare pagina. Bisognerà attendere il 1961 e il processo Eichmann, che sollecitò le testimonianze dentro una prospettiva giudiziaria, per 'liberare' finalmente la parola, che divenne insieme imperativo sociale e necessità interiore.
Testimonianze letterarie, orali, audiovisive, i racconti in prima persona dal ritorno restituiscono un vissuto destinato a documentare il lavoro di storici e giudici ma allo stesso tempo vanno più lontano perché il contenuto narrativo della testimonianza diventa atto, un atto che implica la responsabilità del testimone e quella della persona o del gruppo di persone che ricevono quella testimonianza. In questo contesto e nel dolore che abita le parole dei testimoni si muove il documentario essenziale, nel senso che è indispensabile e che costituisce l'essenza di un uomo, di Giovanni Cioni.
Al centro del suo film c'è Silvano Lippi, ex sergente fiorentino che depose il fucile all'indomani dell'armistizio e per questo fu perseguitato come traditore dai fascisti e poi deportato a Mauthausen, dove la sua unica ragione divenne quella di non far morire il 'testimone'. Dopo anni di silenzio, interrotti dall'accoglienza amicale e da fogli bianchi scelti come primi confidenti, Silvano decide a novantatre anni di raccontare sul grande schermo i suoi 39 mesi all'inferno. Raccontare l'irreparabile e trasmettere l'indicibile con la parola, con lo sguardo e con le mani smaniose nel tentativo di cacciare i fantasmi o di afferrare i sommersi. Perché quella di Silvano è pure "testimonianza recata" di chi non ha avuto parola, di chi ha stretto tra le braccia in punto di morte, di chi ha condannato a morte indotto dalle botte e costretto da una pistola. Se il progetto nazista includeva la distruzione dell'essere umano e l'assenza di testimoni, Silvano si è preso la responsabilità sopravvivendo di diventare memoria e di questa responsabilità e di questa memoria si fa carico Dal ritorno, mettendo in immagini l'irriducibilità umana di Silvano, abolendo tutte le distanze tra chi racconta e chi ascolta, tra passato e presente e accomodandoci in un'intemporalità dove la sua storia rivive. Cioni produce una testimonianza in cui l'orrore vissuto è soltanto evocato dalle parole di Silvano, riemerso dentro i suoi occhi e nelle visioni che ci permette di vedere o di immaginare.
La voce e il corpo di Silvano, colto nell'impegno (e nella fatica) di mettersi in parola o nei silenzi sordi, garantiscono e incarnano la continuità tra ieri e oggi, provando ostinati a colmare lo scarto irrimediabile tra linguaggio ed esistenza. Un film importante quello di Giovanni Cioni, che disloca lo spettatore nei luoghi geografici e interiori di Silvano attraverso la forza fisica del suo cinema. Un cinema che produce emozioni, pensieri e universalità eludendo qualsiasi banalizzazione di atrocità che non avrebbero mai dovuto essere. Comprendendo oltre al resto e sul volto di Silvano che il sole nei lager non era quello della primavera ma dell'eternità e sotto il sole dell'eternità "la carne smette di palpitare, gli occhi si spengono, le labbra impallidiscono e muoiono".
Per Claude Lanzmann (Shoah) è la testimonianza la forma privilegiata per dire l'esperienza concentrazionaria e rendere conto del fenomeno genocidario. Il bisogno di raccontare agli altri, di fare gli altri partecipi, fu un "impulso immediato e violento" sorto già all'interno dei lager con lo scopo evidente di liberarsi dall'orrore. Le prime testimonianze, prodotte a ridosso di una guerra che si voleva soprattutto dimenticare, non trovarono ascoltatori sensibili e disposti.