
In concorso il film che l'attore girò prima di morire, nel 1993.
di Roy Menarini
È un'operazione sorprendente e rischiosa, quella di concludere e presentare un film vent'anni dopo averlo girato. Accade in questi giorni a Berlino con Dark Blood di George Sluizer, ultima interpretazione di River Phoenix, nel 1993, girata poco prima di morire. Quasi a celebrare i vent'anni dalla scomparsa, Sluizer ha contato sul rimpianto che tuttora circonda la dipartita di Phoenix, e ha convinto i finanziatori a terminare il montaggio della pellicola, che tuttavia giunge a noi con due decenni di distanza e quindi nel contesto di un mondo (e di un cinema) completamente cambiati.
Che cosa ha significato River Phoenix nel breve periodo a cavallo tra anni Ottanta e Novanta, nel quale ha girato film a Hollywood? Non solamente una giovane promessa, ma già un esempio di attore indipendente, diviso tra mainstream e grande produzione, secondo quel modello che si sarebbe di lì a poco affermato nel ventennio successivo, dentro la Hollywood virtuale e liquida della contemporaneità. La storia famigliare a dir poco travagliata (i genitori hanno girovagato in mezza America seguendo sette religiose e vivendo secondo schemi alternativi e pauperistici) ovviamente non bastano a spiegare le difficoltà psicologiche di River Phoenix, né la personalità controversa del fratello Joaquin, ma evidentemente suggeriscono qualcosa di un'inquietudine che non deve essere passata inosservata ai registi e all'industria.
La presenza apparentemente innocua nel ruolo di fanciullo anni Ottanta va quanto meno tarata alla scelta di autori oggi canonizzati dalla cinefilia, come Joe Dante per Explorers o Peter Weir per Mosquito Coast. Sono anni in cui dalla pubertà all'adolescenza il passo è breve, e se Stand By Me si è trasformato in un vero e proprio cult movie è anche merito del protagonista. River cresce davanti alla macchina da presa, e carica su di sé lo stesso dilemma del cinema americano, indeciso se proseguire nella poetica familista e tradizionale degli eighties o sperimentare nuove indipendenze, dopo il tramonto della Hollywood Renaissance. E quindi da una parte ci sono Indiana Jones e l'ultima crociata di Steven Spielberg, 1989 e Ti amerò... fino ad ammazzarti di Lawrence Kasdan, 1990, dall'altra il grande 1991 di Belli e dannati di Gus Van Sant e il meno ricordato, ma struggente, Dogfight di Nancy Savoca.
In questi film River Phoenix capisce che è necessario esibire, e non nascondere, le fragilità di un corpo e di una personalità delicata, e con Van Sant - insieme a Keanu Reeves - rifiuta i cliché del giovane attore virile alla Brad Pitt per rendere ambiguo tutto il sistema sessuale cinematografico statunitense. E se i film con cui esce di scena - I signori della truffa di Phil Alden Robinson (1992), Quella cosa chiamata amore di Peter Bogdanovich (1993) - non sono rimasti nella storia, Phoenix aveva però appena costruito un seguito di fan non beceri, appassionati al percorso del loro beniamino, e interessati anche alla musica indie rock del suo gruppo, fondato insieme alla sorella Rain.
La famigerata notte del 30 ottobre 1993 in cui morì per overdose, dunque, va considerata anche uno spartiacque per il cinema "on e off" Hollywood, ribadendo da una parte la distruttività dello stardom - i cui problemi con le tossicodipendenze non sono mai tramontati, dal periodo muto a oggi - e dall'altra parte lasciando una tacita eredità di arte interpretativa capace di trasformare un intero modo di fare cinema: il fratello Joaquin, l'altrettanto sfortunato Heath Ledger, o più di recente Paul Dano e James Franco e pochi altri, ne sono senza dubbio eredi titolati.