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Jacques Audiard: 'Per me un autore è colui che costruisce il suo mondo'

In occasione del festival Rendez-Vous, il regista è stato protagonista di una masterclass in cui ha regalato aneddoti sul suo ultimo film, I fratelli Sisters, dal 2 maggio al cinema.
di Marianna Cappi

I Fratelli Sisters

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martedì 9 aprile 2019 - Incontri

Le biografie lo individuano immediatamente come "figlio di", per via del padre Michel, regista, ma con non tantissimi film all'attivo, Jacques Audiard si è fatto strada in autonomia fino a diventare uno dei più grandi cineasti francesi contemporanei. In occasione di Rendez-Vous, il festival del nuovo cinema francese, ha tenuto ieri al cinema Nuovo Sacher di Roma un'attesissima masterclass, moderata dal critico Federico Pontiggia. Di fronte ad una sala colma di spettatori di ogni età, Audiard ha parlato con modestia e generosità, e con l'umorismo che lo contraddistingue, rispondendo alle sollecitazioni del pubblico su temi e aspetti della sua filmografia e regalando gustosi aneddoti dal set del suo ultimo film, I fratelli Sisters.

Il rapporto con i generi
Non mi sveglio alla mattina pensando: "Oggi faccio un film che gioca con questo genere o con quest'altro", credo che tutte le storie che mi interessano, o mi vengono in mente, abbiano già in loro qualcosa di genere. Non appartengo all'idea classica del "cinema francese d'autore".

Il rapporto con i corpi
Fare cinema, per me, è qualcosa di molto incarnato e se sono diventato regista è per assistere a questa incarnazione, non potrei fare un cinema contemplativo, ho bisogno di una base d'azione e dunque di corpi che spesso arrivo a martirizzare: gli taglio le gambe, le braccia, l'udito. Il cinema è qualcosa di erotico, se non si è interessati a questo, meglio lasciar perdere e fare altro.

Gli attori
Li ammiro sopra ogni cosa. Sarei assolutamente incapace di fare quello che domando agli attori di fare. Certo, la relazione non è sempre facile: attori e attrici possono essere difficili, ma io stesso posso essere insopportabile, con la sola differenza che non possono licenziarmi. Ma è normale, fa parte del gioco. Ad un certo punto me ne sono andato dal set di I fratelli Sisters, in polemica con Joaquin (Phoenix), non ricordo nemmeno più perché, avrà avuto uno sbalzo d'umore. Ma è stata una mossa teatrale: il maestro se ne va per spaventare attori, per far sì che si domandino: "Tornerà? Non tornerà?" Naturalmente sono tornato.

A proposito di Jake Gyllenhaal...
Jake era venuto, anni fa, a dirmi che desiderava lavorare con me. Appena gli ho proposto il ruolo di John Morris ha accettato subito, ed è stata una collaborazione memorabile. Era perfetto, disponibile al massimo: con lo sceneggiatore scrivevamo nel weekend e gli mandavamo le scene il lunedì e subito lui si metteva al lavoro, individualmente, sul personaggio. Ci parlavamo via mail, durante la preparazione, e un giorno mi ha scritto: "Vorrei trovare la maniera di parlare di un cowboy colto nel 1850." Ho saputo che è effettivamente andato a visitare un linguista della Columbia University, ci ha lavorato molto, e un giorno sul set ho scoperto per caso che tutta la sua parte, sul suo copione, era trascritta foneticamente.

... e di Joaquin Phoenix
Phoenix, al contrario, non lavora prima. Si rifiuta di essere considerato come un attore di professione, anche se recita da quando è bambino. È incredibilmente intelligente, rapido, non vuole mai rifare la stessa cosa, e non bisogna proprio proporglielo o si indispettisce. È molto concentrato quando lavora, non si sa mai cosa sta per fare, che è una cosa che a me piace moltissimo. Dopo che ha girato, aspetta che io vada a parlargli e allora mi ascolta molto attentamente. Ha intuizioni prodigiose, reagisce al lavoro degli altri, ma non fa su di sé un lavoro tradizionale di costruzione del personaggio. Mi è successo qualcosa del genere sul mio primo con Mathieu Kassovitz: io gli dicevo delle cose e lui faceva sistematicamente qualcosa di diverso, ma sempre di gran lunga migliore di quello che avevo proposto io. Per questo ammiro gli attori. perché, ripeto, non potrei mai fare quello che fanno loro.
Joaquin è come un bambino: puoi star certo che, se gli dici di andare a destra, lui andrà a sinistra, ma basta agire di conseguenza.


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In foto Il Profeta.
In foto Dheepan.

Naturalismo non vuol dire realismo
I film sono degli artefatti, sono finti, ed è il loro bello. Come creare la verosimiglianza a partire dal falso? Farò un esempio da Il Profeta (2009). Per quel film, che si svolge tutto in un carcere, sono andato a fare vari sopralluoghi, nelle prigioni di Francia, Belgio e Svizzera, e ho capito com'è fatto un istituto penitenziario. Ho anche capito, però, che se fossi andato in uno di quelli, sarei rimasto schiavo del reale, l'avrei subito, avrei documentato il reale. Invece volevo fare un altro tipo di cinema. Dunque abbiamo costruito ex novo una prigione in una struttura industriale. Ne abbiamo fatto, cioè, uno strumento cinematografico per raccontare una storia. Non vedo veramente che quello che costruisco. Per me un autore è colui che costruisce il suo mondo. Se mi deste una cinepresa e mi diceste diceste di andare per strada, adesso, e filmare qualcosa, non saprei cosa filmare. Non saprei come inquadrare la gente. La vedo solo dove la metterei io, nella mia costruzione.

Tahar Rahim
All'epoca de Il Profeta non è che Tahar non avesse mai recitato, ma era il suo primo lungometraggio, e non è stato facile. La prima settimana di riprese aveva delle evidenti difficoltà, e io anche, trovavo tutto finto, mi pareva che non funzionasse niente e ho cominciato ad essere preoccupato. Un giorno, ho capito cosa non andava: stavo lavorando, come appunto ero solito fare, mettendo in posizione gli attori principali per girare le loro scene e poi aggiungevo il resto, gli altri attori sullo sfondo, ma sembravano tutti dei pupazzi di legno. Ho capito allora che dovevo avere la possibilità di mostrare tutta la prigione, a 360 gradi, per animarla davvero, mettere tutti in scena contemporaneamente, anche quelli sullo sfondo, le scale, il cortile con chi giocava a pallone e chi chiacchierava. A partire da quel momento tutto ha cominciato a funzionare. Tahar non era più il personaggio principale, la prigione ora era la protagonista, e lui ha cominciato a lasciarsi andare.

Un cinema di personaggi
Per me tutto parte dalla sceneggiatura, per questo scrivo molto, a lungo, diverse stesure. Da lì nasce tutto un mondo di immagini e di relazioni tra i personaggi, e vedo il mio film. Il problema che mi si pone, ancora oggi, dopo tanto tempo, è come trovare, al momento delle riprese, l'innocenza necessaria, visto che dei miei personaggi ho già esplorato ogni aspetto nella scrittura. È una contraddizione, che mi pone in lotta contro la sceneggiatura. Da qualche tempo vado alle riprese con due testi: il copione e un altro plico, un "quaderno B", che contiene le scene che non hanno trovato posto nella sceneggiatura, le note sulle improvvisazioni fatte, e altri dettagli che sono emersi durante le prove. Man mano, le inserisco sul set, apposta per destabilizzare la macchina troppo organizzata della sceneggiatura. Non sono scene che servono a far avanzare la storia, il più delle volte, ma sono al servizio dei personaggi. Ci sono film che accettano meglio di altri queste scene del quaderno B, e altri in cui funziona meno.

La violenza
Ho sicuramente un rapporto particolare con la violenza, perché la detesto, eppure sono stato obbligato a constatare che in ogni mio film c'è un momento di violenza, a parte I fratelli Sisters dove è diverso, è stilizzata. Ci ho riflettuto e ho capito una cosa: ci sono due momenti che sappiamo essere sempre falsi nei film: l'amore, nel senso del rapporto sessuale, a meno di fare un film pornografico, e la violenza, altrimenti, con un attore veramente accoltellato, il film sarebbe finito lì. Dunque bisogna fare appello alla verosimiglianza. Poiché parto da una base naturalista ho bisogno di interrogare la verosimiglianza fino al suo limite. In Dheepan (2015) il personaggio principale traccia ad un certo punto una linea di demarcazione. Per me voleva dire: da qui in poi il film cambia genere, siete disposti a seguirmi?
Avevo visto un film di Cronenberg, A history of violence, che faceva qualcosa del genere. Il regista ad un certo punto era come se si rivolgesse al pubblico e gli chiedesse se era disposto a seguirlo oltre quel momento.

La redenzione
Tutti i battiti del mio cuore è un film sulla redenzione. Come sapete, è il remake di Rapsodia per un killer di James Toback, dove, alla fine, il personaggio principale uccide l'assassino del padre. Io però volevo che alla fine non riuscisse ad ucciderlo perché, al di là di tutti i calcoli che si possono fare, la vita umana vale di più. A quel punto il mio protagonista abbandona l'inferno che gli aveva lasciato in eredità il padre e va verso la musica, la proposta materna.

Venezia 2018 e la questione di genere
Io ne facevo una questione di giustizia, perché su 21 film in concorso, 20 erano di registi uomini. Ma quello che mi aveva indispettito, a Venezia, era stata soprattutto la rivendicazione di "oggettività" del comitato di selezione. Chi dice che è un film è buono? Chi lo guarda. Se l'avesse visto una donna può darsi che lo sguardo sarebbe stato diverso. Adesso i comitati di selezione dei grandi festival, come Cannes e Berlino, sono composti al 50% da uomini e donne, ed è già un passo avanti.

La "questione Netflix"
Non so se ho una posizione ben precisa in merito. Faccio delle considerazioni. Alfonso Cuaron aveva un film in bianco e nero, d'autore, magnifico, che non riusciva a portare a termine nell'economia cinematografica americana, non trovava i finanziamenti. Netflix gli ha dato la possibilità di farlo, gli ha dato i soldi, e non c'è dubbio che si tratti di grande cinema. Netflix è un momento, un modo in cui in questo momento consumiamo le immagini. Io in realtà non guardo i film su Netflix, mi è successo pochissime volte di farlo, ma è dall'avvento del digitale che facciamo finta che niente sia cambiato, che i film siano gli stessi. Uno storico dell'arte, parlando di Cézanne diceva: "Non è la pittura che è cambiata, sono le mele che sono cambiate". Il problema non è Netflix, ma fare i conti con il cambiamento.

La troupe
Credo che le troupe vadano rinnovate ogni tanto, per non restare prigionieri della proprio comfort zone, per non sedersi sugli allori e impedirsi di cambiare. Di solito lavoro più volte con una troupe, finché le cose non funzionano al meglio, e a quel punto cambio. Così è stato con Stéphane Fontaine alla fotografia. Nel caso di I fratelli Sisters, in particolare, volevo una fotografia molto colorata, quasi kitsch, e avevo visto qualcosa del genere nel lavoro di Benoît Debie per i film di Gaspar Noé e Harmony Korine. Per questo ho scelto lui.

La musica dei dialoghi...
Quando lavoravo in Francia ricorrevo al metodo classico per la direzione degli attori: dicevo loro delle cose, c'era uno scambio, finché si arrivava ad un risultato buono. Poi ho cominciato a stancarmi di questa metodologia: arrivavo sul set e potevo anticiparli, sapevo tutti i dialoghi, e mi annoiavo. Con Il Profeta le cose sono cambiate, perché c'erano sono molte lingue diverse nel film, il dialetto, l'arabo, io non capivo tutto, ma mi è piaciuto. Mi sono potuto concentrare sui movimenti degli attori e sulla musicalità dei dialoghi. Quando, anni dopo, ho fatto Dheepan, che è in lingua tamil, naturalmente non capivo e non mi interessava, mi sono fatto trasportare, ho lasciato che la mia andasse su altro. Con I fratelli Sisters, in un certo senso, è stato lo stesso, perché non parlo bene inglese. D'altronde la mia passione è sempre stata il cinema muto. Murnau e Lang sono i cineasti che mi hanno segnato di più in assoluto.

... e quella del film
La musica per me è molto importante nel processo, ascolto molta musica mentre scrivo e giro. Con Alexandre Desplat, che ha composto le musiche di quasi tutti i miei film, abbiamo cominciato insieme: il mio primo film è stato la prima colonna sonora di Alexandre (Regarde les hommes tomber, 1994. Ndr). Ma abbiamo cambiato metodologia strada facendo. All'inizio faceva la musica prima delle riprese e portava dei demo sul set, poi abbiamo cambiato, perché adesso che lavora molto ha bisogno di vedere le immagini per fare la musica, e allora deve aspettare il girato. Io stesso ho bisogno di due tipi di musica: la musica preesistente e la colonna sonora originale, perché rispondono a due fini diversi: la prima segue la temporalità del film, la seconda segue il personaggio. Con l'eccezione di I fratelli Sisters, in cui la musica è tutta originale, composta da Desplat.

Il lieto fine
Perché i miei film finiscono bene? Perché penso che le fini tragiche siano pigre; il vero talento è quello del commediografo, che deve uno sforzo d'invenzione. La commedia è morale, la tragedia no.


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