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Tokyo Film Festival, un viaggio nello spazio e nel tempo

Presentati Melbourne e The Connection.
di Paolo Bertolin

In foto una scena del film Melbourne, opera prima di Nima Javidi presentata al 27° Tokyo Film Festival.

lunedì 27 ottobre 2014 - News

La selezione di ogni festival, e in particolare la vetrina centrale di un concorso internazionale, si presenta spesso come un viaggio attraverso culture, lingue e continenti diversi. Non v'è dubbio che anche al Festival Internazionale di Tokyo, il pubblico giapponese possa fruire di questa privilegiata esperienza che permette di spostarsi nello spazio e nel tempo, da un appartamento iraniano della Tehran contemporanea alla Marsiglia degli anni Settanta, attanagliata dalla piovra della French Connection, dalla vita di strada di graffitari colombiani a peregrinazioni attraverso le aride steppe della Cina occidentale, per approdare magari infine a Parigi, eterna città dell'amour...

Sono un po' queste a grandi linee le traiettorie geografico-scenografiche percorse attraverso cinque dei film passati in concorso in questi ultimi due giorni. Si tratta di opere dagli intenti e dagli esiti assai divergenti, che confermano la tendenza ecumenica della programmazione di Tokyo. Convivono, quindi, fianco a fianco, opere squisitamente d'autore, incentrate su interrogativi morali e/o personaggi psicologicamente ben delineati e film di genere che coinvolgono per l'efficacia e immediatezza del linguaggio filmico nel riproporre cliché ben riconoscibili. Sarà certo interessante capire in quale direzione si muoverà la giuria molto mainstream presieduta dal regista di Guardiani della Galassia James Gunn.

Tale consesso si farà forse convincere dal coinvolgente dramma iraniano a porte chiuse Melbourne? L'opera prima di Nima Javidi, vista in apertura della Settimana della Critica di Venezia, propone il dramma di una giovane coppia iraniana, in procinto di traslocare alla volta della città australiana del titolo, solo per ritrovarsi intrappolata in un devastante dramma psicologico-morale che la tiene in trappola nell'appartamento che stava svuotando. Film di scrittura tesa e matura e interpretazioni impeccabili, su cui aleggia l'influsso/modello di Asghar Farhadi (e non a caso l'interprete maschile è Peyman Moaadi di Una separazione), Melbourne piomba lo spettatore in un gorgo drammaturgico a tratti inevitabilmente forzato, ma che non lascia indifferenti, anche perché la premessa e il percorso del racconto trascendono lo specifico del contesto iraniano, ponendo interrogativi del tutto universali.

Su un fronte quasi opposto si colloca il crime movie francese The Connection (in originale, La French) di Cédric Jimenez, interpretato da Jean Dujardin. Il film ripercorre le vicende della French Connection, quando, a metà anni Settanta, Marsiglia divenne il grande crocevia del traffico internazionale di eroina e il giudice Pierre Michel cercò, praticamente quasi da solo di porre fine ad un tentacolare sistema criminale, fronteggiando inevitabilmente la corruzione nella polizia e nella politica. Si sarà ben capito che si tratta di un genere di film che in Italia, tra cinema e televisione, nelle declinazioni più disparate è quasi all'ordine del giorno. Così non è in Francia, e The Connection è tanto più sorpredente per via della sua franchezza politica, cosa che ci pare insolita nel cinema transalpino. Vero che si parla di vicende situate in un arco temporale tra il 1975 e la prima metà degli anni Ottanta, ma la denuncia diretta dei loschi trascorsi di un Ministro della Repubblica è cosa davvero inusitata nel cinema di Parigi e dintorni. Valore storico-politico a parte, Jimenez confeziona un'opera lineare e avvincente, magari persino troppo ligia agli obblighi espressivi del genere (certi movimenti di macchina, soluzioni di montaggio e l'uso delle musiche), ma nel complesso convincente, soprattutto per via dell'ottimo cast, su cui s'impone un Dujardin che esplora le sue corde drammatiche con esiti rimarchevoli. Se si dovesse prevedere un verdetto sulla base dei trascorsi professionali della maggioranza dei giurati, difficilmente questo film dovrebbe tornare a casa a mani vuote.

Basandosi sullo stesso paradigma di veggenza, potrebbe essere invece assai arduo che la trasferta cinematografica in Colombia di Los Hongos possa entrare nel palmarès di Tokyo. Sarebbe, però, un peccato, perché l'opera seconda di Oscar Ruiz Navia, già premiata a Locarno, è la più bella dichiarazione di libertà cinematografica vista sin qui sugli schermi di Tokyo. Seguendo con piglio quasi documentario le giornate di due adolescenti adepti del graffitismo, uno bianco, l'altro nero, uno borghese, l'altro povero, Los Hongos compone uno spaccato della Colombia contemporanea che non rileva solo del sociale e del politico, ma che si spinge nel profondo dell'umano, attraverso volti, corpi, voci e desiderio di esprimersi. E in effetti, il film funziona meglio quando lascia da parte una certa tendenza didascalica e più propriamente narrativa, per abbandonarsi all'esperienza sensoriale della libertà di una corsa sullo skate o in bici, della creazione di sgargianti affreschi graffiti politici o del perdersi in una foresta. In termini di itinerario filmico a Tokyo, quella colombiana è stata sicuramente la tappa più appagante.

C'è da domandarsi, invece, come reagirà la giuria al periplo in groppa a cammelli condotto da due ragazzini alla ricerca della tenda dei genitori, attraverso le lande aride della Cine occidentale in River Road. Due anni fa, il regista Li Ruijun aveva presentato negli Orizzonti di Venezia il suo terzo film, Fly with the Crane, e conferma qui la sua buona mano nel dirigere bambini. Ma la sua epopea esotico-infantile-ecologica è ridondante nel racconto e non è chiaro dove voglia andare davvero a parare. Sempre meglio comunque dell'anodino romanzo sentimentale messo in scena dal norvegese Bent Hamer intorno ad una ricercatrice in servizio all'Istituto norvegese che certifica le misurazioni ufficiali nel suo 1001 Grams. Il regista di Kitchen Stories (2003) pare aver perso la sapida ironia della sua classica commedia e, in questa coproduzione franco-norvegese tra Oslo e Parigi, confeziona una storia tutta fatta di misure ("15.5cm?" "No, 18cm" - vi lasciamo immaginare di che si parla) con la noiosa precisione millimetrica di un kit premontato Ikea. Auguriamoci che la giuria (e il pubblico locale, che assegna anch'esso un premio con votazioni post-proiezione) preferisca percorsi più accidentati e stimolanti...

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