francesca meneghetti
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giovedì 9 dicembre 2021
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se una notte d'inverno una viaggiatrice
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Prima di tutto ti vengono addosso gli odori, come nel famoso romanzo di Suskind, “Il Profumo”, anzi un cocktail insopportabile fatto di fumo di sigaretta, fiati alcolici, latrine, corpi sudati e poco lavati, l’odore ferroso dei binari, lo smog urbano. È insolito che un film solleciti tanto l’olfatto, il più primitivo dei sensi, ma è così in “Scompartimento n. 6 - In viaggio con il destino”. Gli spazi chiusi (abitazioni o scompartimenti di un treno transiberiano), affollati di esseri umani, di capi di vestiario pesanti, di coperte e tessuti che assorbono gli odori, sono contenitori di aria impura, ma sono caldi, e illuminati da luci altrettanto calde. Dagli spazi esterni emana una sensorialità tattile, visiva, acustica: il freddo umido e il gelo artico, il bianco non sempre immacolato della neve, la grigia luce diurna, le nebbie, le tenebre che prevalgono sulla luce, l’ululare di un vento sferzante che agita anche il mare, il rumore assordante degli organi meccanici di una miniera.
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Prima di tutto ti vengono addosso gli odori, come nel famoso romanzo di Suskind, “Il Profumo”, anzi un cocktail insopportabile fatto di fumo di sigaretta, fiati alcolici, latrine, corpi sudati e poco lavati, l’odore ferroso dei binari, lo smog urbano. È insolito che un film solleciti tanto l’olfatto, il più primitivo dei sensi, ma è così in “Scompartimento n. 6 - In viaggio con il destino”. Gli spazi chiusi (abitazioni o scompartimenti di un treno transiberiano), affollati di esseri umani, di capi di vestiario pesanti, di coperte e tessuti che assorbono gli odori, sono contenitori di aria impura, ma sono caldi, e illuminati da luci altrettanto calde. Dagli spazi esterni emana una sensorialità tattile, visiva, acustica: il freddo umido e il gelo artico, il bianco non sempre immacolato della neve, la grigia luce diurna, le nebbie, le tenebre che prevalgono sulla luce, l’ululare di un vento sferzante che agita anche il mare, il rumore assordante degli organi meccanici di una miniera. Questi sono gli scenari che fanno da sfondo alla vicenda narrata, con prevalenza degli spazi chiusi nella prima parte del film, di quelli esterni nella seconda. Due i protagonisti: Laura (Seidi Haarla), che fin dalle prime scene ambientate nell’appartamento moscovita di Irina, sembra Janis Joplin spettinata, e Ljoha (Jurij Borisov, astro nascente del cinema russo, occhi azzurri, bel nasino, zigomi sporgenti, cranio angoloso). Lei studentessa di archeologia, appassionata di videoriprese, determinata a vedere i petroglifi (incisioni rupestri) di Murmansk. Lui tamarro, rasato, ubriacone, diretto alla stessa città, posta molto a nord ovest, nel circolo polare artico, per un umile e duro lavoro manuale. L’incontro non è dei più felici, e la convivenza forzata, per diversi giorni, nello scompartimento 6, non facilita certo le cose. Laura, che sta rimuginando dentro di sé pensieri che seguono a una delusione amorosa, non ha molta voglia di parlare, specie con uno come lui. Guarda i finestrini appannati, filma qualche bufera, cerca di sopportare storicamente la presenza del giovane e di altri viaggiatori ingombranti. Poi il gelo del suo cuore si scioglie e accetta gli inviti di Ljoha, anche di trascorrere una notta (in concomitanza di una sosta del treno) a casa di una signora, forse madrina del ragazzo (il quale compie un gesto affettuoso nei suoi riguardi). Questa prima parte è lenta, talora anche noiosa, e claustrofobica quel tanto che serve a rendere realisticamente l’idea di questo viaggio in treno da Mosca a Murmansk in pieno inverno, in una Russia dei primi anni ’90, dove le persone, private dei miti del comunismo, sembrano svuotate, inerti, condannate alla solitudine e all’alcolismo. Va da sé che il treno è altresì evocatore dei valori simbolici assunti da questo mezzo nella letteratura russa (a partire da Anna Karenina). Forse simbolo del destino che travolge e trascina. Con l’arrivo alla destinazione, che decreta anche la separazione dei due, ormai amici e forse più, si entra nella fase più dinamica e aperta, quanto a spazialità. Qui si concentra la parte più emozionante ed avventurosa del film, in un ambiente veramente polare. Le difficoltà incontrate da Laura a raggiungere il proprio obiettivo, la porteranno a cercare Ljoha, che sembrava perso, e a vivere con lui un ultimo viaggio, sentimentale e fisico, attraverso la neve e il ghiaccio. Urge un vin brulè dopo la visione del film
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[+] freddezza emotiva
(di goldy)
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eugenio
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martedì 22 marzo 2022
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il treno, la notte, la vita
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Sembra quasi di avvertire la nostalgica consapevolezza del disagio cechoviano in Scompartimento No. 6, presentato in concorso al Festival di Cannes 2021 e tratto dal romanzo di Rosa Liksom. Ma se nel narratore russo, il mondo della grande madre patria appariva umanità dolente e rassegnata in uno stallo da cui non pareva esserci una via d’uscita, nel film di Juho Kuosmanen, l’irrequietezza malinconica diviene disagio e incertezza negli alvei di un viaggio lunghissimo da Mosca a Murmansk, all'estremità nord-occidentale della Russia europea a due passi dal Mar di Barentz.
Due i protagonisti a dividere le notti livide e fredde di un viaggio metafora di un’esistenza ingrigita e tormentata: da un lato Laura (Seidi Haarla), una timida e silenziosa ragazza finlandese, diretta senza la sua fidanzata, l’insegnante Irena, alla visita dei petroglifi, incisioni rupestri millenarie e dall’altro Ljoha (Yuriy Borisov), un ragazzo russo pieno di rabbia, dolore represso, in fuga da quell’URSS appena demolita (siamo ad inizi anni ’90) verso un lavoro di minatore.
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Sembra quasi di avvertire la nostalgica consapevolezza del disagio cechoviano in Scompartimento No. 6, presentato in concorso al Festival di Cannes 2021 e tratto dal romanzo di Rosa Liksom. Ma se nel narratore russo, il mondo della grande madre patria appariva umanità dolente e rassegnata in uno stallo da cui non pareva esserci una via d’uscita, nel film di Juho Kuosmanen, l’irrequietezza malinconica diviene disagio e incertezza negli alvei di un viaggio lunghissimo da Mosca a Murmansk, all'estremità nord-occidentale della Russia europea a due passi dal Mar di Barentz.
Due i protagonisti a dividere le notti livide e fredde di un viaggio metafora di un’esistenza ingrigita e tormentata: da un lato Laura (Seidi Haarla), una timida e silenziosa ragazza finlandese, diretta senza la sua fidanzata, l’insegnante Irena, alla visita dei petroglifi, incisioni rupestri millenarie e dall’altro Ljoha (Yuriy Borisov), un ragazzo russo pieno di rabbia, dolore represso, in fuga da quell’URSS appena demolita (siamo ad inizi anni ’90) verso un lavoro di minatore.
Due solitudini a incrociarsi in uno scompartimento dove la privacy non esiste, due solitudini che cozzano, litigano, si amano, in un mondo a cui non appartengono ma nel quale, lottano per esistere, contro il freddo, i ghiacci, le convenzioni sociali. Le stesse che spingono, nel corso della festa di intellettuali moscoviti, Laura a partire senza la sua amata raggiunta al telefono in laconiche comunicazioni, di pari e opposta tensione, Ljoha a migliorare le sue condizioni di vita all'alba della caduta del comunismo. Di sfondo, il paesaggio di una steppa desolata, fatta di incontri con compagni di viaggio non sempre piacevoli, di silenzi innevati, territori primigeni e pudici come il rapporto fragile e del resto quasi commovente che si verrà a creare tra i due nel corso della vicenda.
Kuosmanen con solerte capacità, filma questo rapporto, ci pone ad altezza degli sguardi della coppia, negli scompartimenti che ricordano tanti i treni anni ’90 Milano-Palermo, colmi di un’umanità invadente e al tempo stesso affiatata. Il gusto dell’inquadratura è volutamente mirato a sottolineare il grande “mare bianco” che i due affrontano, prima separandosi, poi ritrovandosi al termine del loro viaggio, senza retorica, senza stucchevoli frasi d’amore, inframezzate da un vaffanculo pronunciato nel medesimo modo. No, solo con l’ambizione di voler raccontare, come ogni cinema dovrebbe fare, unastoria (per dirla alla Gipi), di un viaggio al termine del quale, indipendentemente dalla destinazione, i due non saranno più come prima.
Forse perché entrambi impareranno ad ascoltare con decisione, l'animale che si portano dentro, per citare Battiato, in una notte calviniana fatta di binari, silenzi, vodka e tanto coraggio. Quello di accettare di essere invece, almeno in parte, uguale a ciò che si rifiutava a priori prima.
E questa consapevolezza, dona il quid di ogni senso di viaggio, dove la destinazione è solo l’inizio di una nuova tappa. Tutta da vivere.
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