Roubaix, Une Lumière

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In cerca di ciò che resta dell'anima

di Fabio Ferzetti L'Espresso

Il nuovo film di Desplechin è tre volte anomalo. È un giallo metafisico dominato dalla figura quasi inquietante di un commissario di origini algerine che tutto sa, tutto intuisce e forse tutto comprende, come una specie di santo laico che facendosi attraversare dal dolore del mondo riesce ad accoglierlo e combatterlo al tempo stesso. È un film di finzione, con grandi nomi nei ruoli principali, ma così fedelmente ispirato a un famoso documentario tv ("Roubaix, commissariat central, affaires courantes" di Mosco Levi Boucault) da esserne quasi la replica. Infine è così diverso da ciò che ha fatto finora questo geniale ed eccentrico regista nato proprio a Roubaix, a due passi dal Belgio, una delle città più depresse di Francia, da essere quasi una rivoluzione copernicana. Se i suoi film bizzarri e memorabili (tra gli ultimi "I miei giorni più belli", "Racconto di Natale", "I re e la regina") trasfigurano la realtà volteggiando fra la commedia sofisticata e il diario intimo (diario immaginario ma non per questo meno autentico), "Roubaix, une lumière" fa l' opposto. Ricrea un sordido fatto di cronaca cercando un raggio di luce perfino dietro queste due amanti miserabili che hanno trucidato una vecchia più povera di loro per un bottino risibile. Il che significa auscultare ogni minimo sussulto dietro la confessione che poco a poco l' ineffabile commissario Daoud (monumentale Roschdy Zem) strappa alla più debole delle due, Sara Forestier, palesemente dominata da Léa Seydoux, madre di una bambina e mente del delitto. Anche se questo è forse il lato più cerebrale di un film che inseguendo la verità a colpi di artifici chiede a volte troppo allo spettatore. Ma ha momenti memorabili in tutto il lungo prologo che vede questo commissario dotato di facoltà quasi medianiche, venerato dai suoi agenti ma disprezzato dai concittadini di origine araba, indagare sui casi più diversi con la sicurezza folgorante del grande poliziotto e la pietas segreta del confessore. Truffe, stupri, incendi dolosi, ragazze scappate di casa: non contano tanto i "casi", o il loro valore sociologico, quanto le persone, o ciò che resta di quella che per comodità chiamiamo anima. Un Maigret scritto da Dostoevskij, ha detto qualcuno. Con l' aggiunta di un dettaglio, già nel documentario, che deve aver sedotto Desplechin: le origini algerine del commissario.
Da L'Espresso, 4 ottobre 2020


di Fabio Ferzetti, 4 ottobre 2020

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