biscotto51
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domenica 19 dicembre 2021
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l''ossessione del verde.
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Bel film, ma non so quanti hanno notato la presenza in quasi ogni scena di qualcosa di verde: pareti dei muri, tappezzerie, tende, abiti, guarnizioni di abiti e berretti, spille su abiti, soprammobili, la lampada sulla scrivania del dottore, la vernice con la quale una protagonista imbianca una parete... e altro che ora non ricordo.
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dino70
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mercoledì 24 marzo 2021
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iya e masha in simbiosi oltre la fame e la guerra
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Inverno 1945 - Leningrado. La guerra è agli sgoccioli, ormai è alla fine, ma per la città russa non è finito un conflitto bellico, ma probabilmente un inferno dantesco irrappresentabile, un terribile assedio di 2 anni e mezzo con 1 milione e mezzo di morti fra militari e civili su 2 milioni di abitanti, parte dell’operazione Barbarossa iniziata dai nazisti nel 1942, una delle più grandi concentrazioni militari di sempre condotta con criteri criminali e di sterminio.
Questo grande film di Kantemir Bagalov è la storia di due donne, tra le tante che sostituiscono gli uomini morti in guerra e assumono anche ruoli che sembravano inadatti a loro; non solo infermiere, cuoche o telefagriste o operaie, ma anche soldatesse.
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Inverno 1945 - Leningrado. La guerra è agli sgoccioli, ormai è alla fine, ma per la città russa non è finito un conflitto bellico, ma probabilmente un inferno dantesco irrappresentabile, un terribile assedio di 2 anni e mezzo con 1 milione e mezzo di morti fra militari e civili su 2 milioni di abitanti, parte dell’operazione Barbarossa iniziata dai nazisti nel 1942, una delle più grandi concentrazioni militari di sempre condotta con criteri criminali e di sterminio.
Questo grande film di Kantemir Bagalov è la storia di due donne, tra le tante che sostituiscono gli uomini morti in guerra e assumono anche ruoli che sembravano inadatti a loro; non solo infermiere, cuoche o telefagriste o operaie, ma anche soldatesse.
Sono i volti delle due protagoniste Iya (Viktoria Miroshnichenko) e Masha (Vasilisa Perelygina) che raccontano un dramma che non si può narrare, solo leggere ed intuire attraverso le loro espressioni, i loro scatti, le loro gioie mai lontane dall’ira trattenuta, protagoniste di un mondo che cerca di trovare una speranza, ma afflitte da una fame dove a mancare non è solo il cibo.
Film duro, un pugno nello stomaco, ma di una purezza cinematografica unica.
Iya (Viktoria Miroshnichenko) fa l’infermiera; è bionda molto alta e svagata, ha una malattia da stress che la fa improvvisamente assentare, fissa qualcosa e si paralizza. Masha è tornata dal fronte, segnata nella mente e nel corpo, ma si inventa una sua vitàlità quasi maschile e possessiva per sopravvivere, per dichiararsi viva, e per legarsi-slegarsi simbioticamente all’amica che ha conosciuto al fronte e che le stava crescendo il figlio, dopo essere stata congedata per la sua malattia.
Una magnifica fotografia (di Ksenia Sereda) che ricorda certi colori bergmaniani, e tutta un’atmosfera disperata e disperante, intrisa di un feroce cinismo come unica àncora di salvezza che ricorda i libri di grandi scrittori contemporanei. come Agota Kristov o Roman Gary.
Il regista Kantomir Bagalov conferma tutto il suo talento, con una regia perfetta e virtuosa all’interno di una messinscena creata con maestria.
Film che lascia il segno, grande cinema d’autore.
Indimenticabile davvero la prova attoriale delle due protagoniste, le attrici russe Viktoria Miroshnichenko e Vasilisa Perelygina.
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ashtray_bliss
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mercoledì 2 dicembre 2020
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donne, guerra e violenza. virtuoso ritratto russo.
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Il giovane regista russo Balagov confeziona un memorabile lungometraggio, intimo e incisivo, poetico e al contempo crudo e feroce, che mette in primo piano l'esperienza femminile raccontandone il dramma, i traumi e il dolore, esplorando le ripercussioni della guerra a livello emotivo, psicologico e naturalmente fisico. Basandosi e ispirandosi al libro La Guerra non ha il Volto di Donna, Balagov restituisce un affresco visivamente potente e suggestivo che cattura lo spettatore grazie sopratutto all'uso impeccabile della fotografia: vivida, calda, avvolgente con i suoi marcati contrasti tra i colori dominanti rosso e verde, creando un'antitesi vigorosa- tanto metaforica quanto visiva- con gli ambienti esterni, freddi, spogli, decadenti, pienamente allineati col contesto storico e sociale che circonda le due indiscusse protagoniste, Iya e Masha, e anche col loro mondo interiore, sgretolato, profondamente e irrimediabilmente ferito.
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Il giovane regista russo Balagov confeziona un memorabile lungometraggio, intimo e incisivo, poetico e al contempo crudo e feroce, che mette in primo piano l'esperienza femminile raccontandone il dramma, i traumi e il dolore, esplorando le ripercussioni della guerra a livello emotivo, psicologico e naturalmente fisico. Basandosi e ispirandosi al libro La Guerra non ha il Volto di Donna, Balagov restituisce un affresco visivamente potente e suggestivo che cattura lo spettatore grazie sopratutto all'uso impeccabile della fotografia: vivida, calda, avvolgente con i suoi marcati contrasti tra i colori dominanti rosso e verde, creando un'antitesi vigorosa- tanto metaforica quanto visiva- con gli ambienti esterni, freddi, spogli, decadenti, pienamente allineati col contesto storico e sociale che circonda le due indiscusse protagoniste, Iya e Masha, e anche col loro mondo interiore, sgretolato, profondamente e irrimediabilmente ferito. Tanto da servire come specchio narrativo di una società dilaniata e piegata che prova disperatamente a rimettersi in piedi, a guarire, a costruirsi un futuro seppur basato su mere illusioni e sogni infranti, irrealizzabili a causa delle circostanze, della miseria e povertà. E di cui le protagoniste diventano i simboli.
Ci troviamo infatti a Stalingrado all'alba dell fine della Seconda Guerra Mondiale e seguiamo inizialmente la vita di Iya, una giovane infermiera dal viso pallido e dalle gambe lunghissime tanto da guadagnarsi l'appellativo di "giraffa", che presta il suo servizio presso un ospedale assistendo soldati ricoverati in reparto ma diventando anche, all'occorrenza, angelo di morte, dispensando salvezza dalle sofferenze insopportabili dei reduci di guerra. Ma lei stessa soffre di un disturbo da stress post traumatico che si manifesta con una forma di epilessia che porta ad avere delle assenze, dei blocchi in cui il tempo e lo spazio per lei si fermano creando un vuoto. Un vuoto che si dimostrerà fatale per il piccolo Pashka, figlio dell'amica Masha ancora sul fronte, morto innocente durante uno degli episodi della giovane infermiera. Inizia così a tessersi e delinearsi questo dramma intenso e vibrante che echeggia i classici della letteratura russa e con sguardo asciutto e privo di pietismi esplora le dinamiche che regolano il rapporto tra le due donne ma anche col mondo esterno. Un rapporto costruito sulla reciproca fiducia e amicizia, forse anche attrazione, ma che presto si tramuterà in qualcosa di ambiguo e sinistro con Masha che inizia a manifestare un comportamento manipolatorio e persuasivo nei confronti dell'amica, rea confessa dell'involontario omicidio. Ma la voglia di realizzarsi come persona attraverso la maternità è più forte di Masha che non si arrende nemmeno davanti all'evidenza clinica, quella che bruscamente le comunica che non può più aver figli. Una rivelazione pesante come un macigno per la giovane ragazza che decide allora di usare la sua amica come mamma surrogato per realizzare il suo sogno, a tutti i costi.
Ecco allora che il regista presta uno sguardo preciso, delicato ma profondo, sulla fragilità della psiche femminile. Specialmente quella di una donna che è stata sul fronte, ma non come soldatessa. Quella di cui il corpo è stato sfruttato, martoriato, abusato. In un potente e memorabile, visivamente ed emotivamente, dialogo verso la fine della pellicola la stessa Masha rivelerà alla donna borghese che siede di fronte a lei, di essere grata del suo corpo poichè le ha permesso di sopravvivere. Ma il prezzo da pagare è stato altissimo e va ben oltre l'umiliazione e il dolore fisico. E' quello dei diritti riproduttivi negati, strappati via con la forza per evitare gli aborti continui, e permettere ai soldati di "distrarsi". E Iya non è meno segnata o ferita, nel corpo e nell'anima, da ciò che ha visto, ciò che lei stessa probabilmente ha subito e manifestandosi col disturbo epilettico.
S'instaura così il doloroso ma necessario discorso sul dolore e sulla violenza di cui è intriso questo racconto; violenza di genere, naturalmente, ma anche quella provocata dalla guerra e successivamente dalla povertà e disparità sociale. Emblematica e caratteristica è ancora una volta la relazione tra Masha e Sasha, giovane borghese che s'innamora e s'impietosisce delle precarie condizioni in cui versano le giovani apprestandosi ad aiutarle economicamente. Ma il contrasto sociale si manifesterà appieno soltanto in ultimo, durante il pranzo a casa della famiglia di Sasha, dove le discrepanze, le inuguaglianze e ingiustizie sociali verranno prepotentemente a galla, in un crescendo che trasporta al suo interno dolore e rabbia, amplificando e infiammando le differenze sociali.
E sulle luci soffuse e le ombre riflesse che dominano lo schermo, viene narrata una storia di donne, solitudine, disperazione ma anche speranza e voglia di rinascita. Raccontata specialmente attraverso i corpi delle protagoniste. Sui loro movimenti e sguardi, i loro sorrisi e silenzi, le loro cicatrici e lacrime si compone questo poetico puzzle di immagini e contenuti. Un film d'autore che scalfisce e penetra nello spettatore grazie alla sua maestria e abilità che, senza virtuosismi o sensazionalismi, restituisce un'opera dai contenuti stratificati e meravigliosamente amalgamati.
Nessuna sbavatura, nessun eccesso, nessuna scena o dialogo fuori posto. Sulle orme di Sokurov, il giovane regista conferma il talento e l'abilità tecnica nonchè la disinvoltura nel trattare argomenti spinosi e dall'eredità storica e sociale molto pesante, già incontrata e affermata nel precedente dramma di confine Tesnota (un confine metaforico: etnico, religioso, emotivo).
Le emozioni fortunatamente dominano anche questa volta e rendono La Ragazza d'Autunno (come da poetico adattamento in Italiano dell'originale Dylda) un film intenso, viscerale, memorabile e avvolgente. Una ricostruzione dolente ma necessaria ma anche una presa di coscienza su come le donne siano sempre quelle a pagare il prezzo più alto e a portare in modo permanente e indelebile le cicatrici, fisiche, mentali ed emotive della guerra mentre attivamente partecipano alla ricostruzione della nazione, contribuendo alla sua rinascita e riscatto, risollevando la società mentre devono ancora fare i conti con le proprie ferite invisibili. Ritratto struggente e bellissimo, come un quadro che si anima, capace di farti respirare l’orrore della violenza e assaporare la bellezza e delicatezza femminile. Una bellezza che trascende i connotati del viso, del corpo, della postura ma che risiede nella resistenza morale, nella resilienza e nella complicità di due donne che si aiutano e sorreggono a vicenda poichè entrambe vittime e carnefici che tentano di guarire.
Incantevole perla di rara bellezza e fattura, magnificamente interpretato, scritto e diretto: 5/5.
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oclockalex
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domenica 28 giugno 2020
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quel che rimane della guerra
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La prima domanda che mi pongo dopo una visione di questo tipo è: ma c’è ancora gente che riesce a fare cose di questo genere? La risposta evidentemente è passata or ora davanti ai miei occhi! Sì, Grazie a Dio ( il che detto da un ateo praticante…).
La storia di due ragazze colpevoli e innocenti, di essere uscite da una guerra tremenda e farne parte come rimasuglio, come resto, come immondizia. Ma quale guerra? Leningrado (ora San Pietroburgo) non è stata una guerra, ma un assedio come neppure Troia, un eccidio come neppure Auschwitz, una fame dove a mancare non era solo il cibo.
Il racconto si sofferma sui visi delle due attrici e non solo, sulle tragedie che continuano.
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La prima domanda che mi pongo dopo una visione di questo tipo è: ma c’è ancora gente che riesce a fare cose di questo genere? La risposta evidentemente è passata or ora davanti ai miei occhi! Sì, Grazie a Dio ( il che detto da un ateo praticante…).
La storia di due ragazze colpevoli e innocenti, di essere uscite da una guerra tremenda e farne parte come rimasuglio, come resto, come immondizia. Ma quale guerra? Leningrado (ora San Pietroburgo) non è stata una guerra, ma un assedio come neppure Troia, un eccidio come neppure Auschwitz, una fame dove a mancare non era solo il cibo.
Il racconto si sofferma sui visi delle due attrici e non solo, sulle tragedie che continuano. Perché quando si fa una guerra si da inizio a qualcosa che non ha fine. Non è un gioco di figurine in divisa ai comandi di politici e generali, è un male assoluto di cui questi signori non possono lavarsi le mani. Per colpa di questi assassini muoiono bambini, donne, vecchi… innocenti! e questi signori non possono mostrarci la loro faccia soddisfatta o mortificata a seconda di come sono andate le cose. La colpa è loro e dei loro complici.
Ci si mostra le facce delle vittime, sta a noi dare una fisionomia ai colpevoli che continuano i loro delitti.
Questo sembra dirci il film, questo è quello che ho capito, oltre al fatto tragico, romantico, crudele e sentimentale, oltre le coscienze denigrate, le colpe perpetuate, le attrici stupende, la fotografia perfetta, i dialoghi taglienti, la scenografia poetica….
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astromelia
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venerdì 22 maggio 2020
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piuttosto pesante
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la visione è senza dubbio pesante dettata dalle tematiche intrinseche,temi sempre attuali ma delicati e nel contempo gravi come i disturbi fisiologici dei protagonisti,non un film per tutti ma per gli amanti del cinema più profondo
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eugenio
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giovedì 7 maggio 2020
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maternità surrogata, leningrado, 1945
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Gelido, drammatico e implacabile con scene esteticamente incredibili a ben pensare ma plausibili considerando il periodo storico in cui esso è ambientato. Tutto ciò è La ragazza d’autunno.
Leningrado, autunno 1945. Iya (Viktoria Miroshnichenko), detta Giraffa (titolo originale del film "Beanpole"), slavata russa infermiera in un ospedale per veterani, soffre di una sindrome post-traumatica con convulsioni inaspettatamente violente che la congelano, la paralizzano e la fanno respirare con fatica. Con lei vive un bambino di tre anni, Pashka, che apprendiamo essere non suo figlio (checchè questo la chiami “madre”) ma di Masha (Vasilisa Perelygina), giovane più o meno coetanea, di ritorno dal fronte per vendicarsi del marito ucciso dai tedeschi.
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Gelido, drammatico e implacabile con scene esteticamente incredibili a ben pensare ma plausibili considerando il periodo storico in cui esso è ambientato. Tutto ciò è La ragazza d’autunno.
Leningrado, autunno 1945. Iya (Viktoria Miroshnichenko), detta Giraffa (titolo originale del film "Beanpole"), slavata russa infermiera in un ospedale per veterani, soffre di una sindrome post-traumatica con convulsioni inaspettatamente violente che la congelano, la paralizzano e la fanno respirare con fatica. Con lei vive un bambino di tre anni, Pashka, che apprendiamo essere non suo figlio (checchè questo la chiami “madre”) ma di Masha (Vasilisa Perelygina), giovane più o meno coetanea, di ritorno dal fronte per vendicarsi del marito ucciso dai tedeschi. Ma a un certo punto, mentre Iya e Pashka giocano sul pavimento di legno del loro piccolo appartamento, la donna ha uno dei suoi attacchi e soffoca inavvertitamente il bambino sotto il suo peso, spietatamente ma senza colpe.
Masha, occhi disperati e assetata di vita oltre che sterile a seguito di una orrenda ferita provocata da una granata, richiede lo scotto di quella perdita: Dirà, cinica: Il mio bambino non me lo hai protetto quindi adesso me ne darai uno nuovo. Magari con uno di quei soldati.
Il là alle danze del film di Kantemir Balagov, classe 1991, allievo della scuola di Sokurov, impostosi con prepotenza con il suo esordio, Tesnota, vincitore per la miglior regia, Un Certain Regard a Cannes, premiato al Torino Film Festival, è presto dato. E apparentemente senza speranza, La ragazza d’autunno si muove nei meandri di una Leningrado fatta di anime buie dostojevskiane, intrise di dolore, di squallidi interni, di miserie del mondo di sopra e di sotto, di macerie morali imposte dalla guerra col suo gravido carico di traumi.
La storia di una frattura terribile per la comunità russa si specchia nel comportamento ondivago, “inutile dentro” e stranito di Iya, una donna distrutta dalla privazione, una vita sconvolta da ricostruire, in maniera surrogata per farne vivere un’altra non sua. Per far questo, Bagalov sceglie un’atmosfera fatta di colori caldi, di piccole baracche, di vite scrostate ai margini che guardano ai temi del sacrificio e dell’amore su cui si innesta algida una borghesia fredda e inaccurata, quella cui appartiene il portantino russo, Sasha, futuro marito di Masha.
Doppie vite, colori verdi e rossi si fondono nel sangue della tragica storia russa, con oltre venti milioni di morti e soprattutto di coloro che alla morte sono sopravvissuti, lasciando nei loro cuori strascichi di ferite e traumi duri a morire, in esso si nasconde il senso della ragazza d’autunno. Ma è soprattutto quella voglia di vivere che si innalza dalle macerie, si respira, nonostante tutto e tutti, da questa desolante terra eliottiana che ha lasciato la seconda guerra mondiale, quella (e questa) voglia di vivere a prevalere. In un bel dialogo tra Masha, forse il personaggio meglio caratterizzato e la madre di Sasha che sposerà, si legge tutto il sentimento di vita, quella voglia di salire dagli inferi, di entrambe le donne, due, lo specchio uno dell’altra che si dividono la scena, spezzate dalla voglia di avere una vita a cui “aggrapparsi”.
Il distico vita-morte permea le oltre due ore e quindi della pellicola, una storia di maternità surrogata nella rinascita russa, di anime morte in continuo movimento, che come falene attratte dalla luce della vita, cercano di rimettersi in moto, avendo bisogno le une delle altre, per sancire la loro esistenza.
Iya intorpidita dalla vita si aggrappa a Masha, assecondandola anche nelle sue direttive secondo l’imposizione darwiniana della legge del più forte. E Masha finisce per crederci, imbastisce quel teatrino di vita, già distrutto dal conflitto, nel disperato e disperante bisogno di amore e di conforto. Anche se ahimè illusorio.
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jon woo
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giovedì 30 gennaio 2020
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la giraffa siamo noi
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il 21 giugno del 1941, una delle più grandi concentrazioni militari di tutti i tempi invase l'URSS. iniziava l'operazione Barbarossa, una guerra condotta con criteri criminali e di sterminio. Uno dei tre obbiettivi principali era proprio Leningrado, che visse un terribile assedio di 2 anni e mezzo con 1 milione e mezzo di morti fra militari e civili su 2 milioni di abitanti. Un assedio che ridusse la città alla fame e alla totale distruzione. Un tale carico di sofferenza e disumanità non poteva non avere effetti anche nel dopoguerra. Credo che se non si parte da questo dato di fatto (del resto esplicitato nella prima e unica didascalia del film che indica luogo e periodo storico, ovvero "primo autunno dopo la guerra") si rischia di perdere il meccanismo all'origine dell'opera d'arte.
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il 21 giugno del 1941, una delle più grandi concentrazioni militari di tutti i tempi invase l'URSS. iniziava l'operazione Barbarossa, una guerra condotta con criteri criminali e di sterminio. Uno dei tre obbiettivi principali era proprio Leningrado, che visse un terribile assedio di 2 anni e mezzo con 1 milione e mezzo di morti fra militari e civili su 2 milioni di abitanti. Un assedio che ridusse la città alla fame e alla totale distruzione. Un tale carico di sofferenza e disumanità non poteva non avere effetti anche nel dopoguerra. Credo che se non si parte da questo dato di fatto (del resto esplicitato nella prima e unica didascalia del film che indica luogo e periodo storico, ovvero "primo autunno dopo la guerra") si rischia di perdere il meccanismo all'origine dell'opera d'arte. Che di questo si tratta. Il "blocco" della protagonista (in realtà non “ragazza d'autunno” come recita la traduzione italiana, ma "spilungona" ovvero "inadatta", "fuori posto", appunto “giraffa”) non può che rimandare a chi ha vissuto l'indicibile e la coglie proprio nei momenti di maggior coinvolgimento emotivo, come se volesse mantenere quella corazza che, durante l'assedio, è stata necessaria per sopravvivere. Un "blocco" però portatore di morte in una situazione generale che, pur se a guerra finita, rimane devastata. Fra chi cerca la morte per uscire da una condizione personale irrimediabile, a chi cerca nuova vita per andare avanti, a suggello della mostruosità di un conflitto entrato nel profondo di una umanità sofferente. Si tratta di un lavoro difficile, complesso e con tempi dilatatissimi, dove anche il sesso non ha più nessuna relazione con l'umano avvicinarsi di 2 corpi. Per me un capolavoro che resta una volta usciti dal cinema, con interpreti straordinari.
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nadia meden
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sabato 25 gennaio 2020
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donne in prima fila
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Ho potuto assistere al film "Laragazza d' autunno ", secondo lungometraggio del giovane regista Balagov. Leningrado 1945, una delle città più devastate dal conflitto mondiale. Un film che parla didonne, di come le donne hanno vissuto la guerra e di come tentano di dare un senso a tutto e di ricominciare una vita normale. Che dire, io non riesco a considerarlo un capolavoro. Le guerre sono sempre state e lo sono tutt' ora devastanti. Non ho capito dove si voleva arrivare, si voleva forse parlare dell' infanzia negata al piccolo Pashka ? Oppure si voleva parlare della strana amicizia- amore tra le due donne Lya e Masha ? Si voleva forse parlare di eutanasia e di gravidanza surrogata ? Oppure del ricatto messo in atto verso il medico dell' ospedale nonchè membro dello Stato , obbligato a "inseminare" Lya ? Non lo so, certamente , per me un film troppo lungo e noioso che non mi ha trasmesso nessuna emozione.
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Ho potuto assistere al film "Laragazza d' autunno ", secondo lungometraggio del giovane regista Balagov. Leningrado 1945, una delle città più devastate dal conflitto mondiale. Un film che parla didonne, di come le donne hanno vissuto la guerra e di come tentano di dare un senso a tutto e di ricominciare una vita normale. Che dire, io non riesco a considerarlo un capolavoro. Le guerre sono sempre state e lo sono tutt' ora devastanti. Non ho capito dove si voleva arrivare, si voleva forse parlare dell' infanzia negata al piccolo Pashka ? Oppure si voleva parlare della strana amicizia- amore tra le due donne Lya e Masha ? Si voleva forse parlare di eutanasia e di gravidanza surrogata ? Oppure del ricatto messo in atto verso il medico dell' ospedale nonchè membro dello Stato , obbligato a "inseminare" Lya ? Non lo so, certamente , per me un film troppo lungo e noioso che non mi ha trasmesso nessuna emozione. Un plauso sicuramente va alla fotografia e all' uso dei colori sgargianti che forse dimostrano una voglia di rinascita. Grazie .
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sabato 25 gennaio 2020
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sopravvalutato
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Tormento per il povero spettatore che si ostina a rimanere fino al termine della pellicola. Salvo solo la fotografia, che non basta però a salvare un film insopportabile, che non coinvolge, inutilmente lento, piatto e senza idee. Sceneggiatura imbarazzante.
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flaw54
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lunedì 20 gennaio 2020
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ed io insisto....
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Io insisto nel credere alle recensioni degli esperti e mi trovo a vedere un film come questo, celebrato da tutti come un capolavoro ( certo se Parasite è candidato all'Oscar tutto è accettabile). Film di una noia mortale, recitazione inesistente, mutismo dominante. La situazione postbellica si può rendere in modo ben diverso e sorrido verso chi ci ritrova una critica allo stalinismo. In realtà il film si può liquidare in due sole parole di fantozziana memoria: una boiata pazzesca!
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