fabius
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domenica 2 giugno 2019
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un piccolo grande gioiello
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Emozionante e vero: un film "povero" dalla parte (o dagli occhi) degli ultimi, dei "non visibili" sui tetti, nella vita o nelle case (sullo sfondo di una Taranto trafitta ed afflitta, lividamente fotografata dai tetti), che regala con omogenea sapienza battute e verità, piccole chicche di malinconica dolcezza e schizzi di sordida cattiveria, saggezza di verità storiche e contingenti. Un Papaleo diventato veramente bravo e a tratti commovente, un ottimo Rubini, una regia intelligente, capace anche di evitare di scivolare in una sorta di commedia caricaturale. Invece no: il Grande Spirito evidentemente ha sovrainteso bene. E che l'anima di Cervo Nero accompagni Teresa nelle terre irochesi
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eugenio
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domenica 19 maggio 2019
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un western crepuscolare tra miseria e nobiltà
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Meglio nudi che prigionieri della civiltà!
Urla così uno straordinario Rocco Papaleo nel quattordicesimo film diretto da Sergio Rubini dall’emblematico titolo Il grande spirito. Una storia che nasce come western crespuscolare e che si muove tra le spire velenose dei quartieri popolari di Taranto funestati dall’acciaieria Ilva e dalle guerre tra bande. In uno di questi palazzi, in una terrazza ingombra di catini, antenne e panni stesi dove i suoni della civiltà arrivano attutiti, vive un reietto (impersonato da Rocco Papaleo) che si fa chiamare Cervo Nero e che crede di essere un sioux in lotta contro l’uomo bianco, lo yankee.
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Meglio nudi che prigionieri della civiltà!
Urla così uno straordinario Rocco Papaleo nel quattordicesimo film diretto da Sergio Rubini dall’emblematico titolo Il grande spirito. Una storia che nasce come western crespuscolare e che si muove tra le spire velenose dei quartieri popolari di Taranto funestati dall’acciaieria Ilva e dalle guerre tra bande. In uno di questi palazzi, in una terrazza ingombra di catini, antenne e panni stesi dove i suoni della civiltà arrivano attutiti, vive un reietto (impersonato da Rocco Papaleo) che si fa chiamare Cervo Nero e che crede di essere un sioux in lotta contro l’uomo bianco, lo yankee.
Sguardo allucinato, un paio di occhiali, una consumata tuta blu e una bandana rossa stretta a mo’ di bandana cinta attorno alla testa, l’uomo dall’alto guarda lontano, scrutando l’orizzonte marcio della società che brucia, oltre la corruzione del sottosuolo magnificato. Un giorno vede arrivare un “suo simile”, un criminale di bassa leva, Tonino detto "Il Barboncino" (Sergio Rubini, allampanato nella sua mise di “capellone”) in possesso di un cospicuo malloppo sottratto ai suoi compari in una grottesca quanto rovinosa fuga in cui finirà mezzo azzoppato.
Inutile dire che tra Cervo Nero e Il barboncino, si creerà un legame di amicizia (lui lo curerà dalla ferita) e complicità. Riusciranno i nostri due prodi, in un’improvvisato duetto all’armata Brancaleone, a vincere la loro personale crociata contro gli uomini bianchi? O finiranno sbranati dal lupo per riuscire a difendere quel maledetto malloppo rimasto sepolto in un cantiere?
Il grande spirito si inserisce nel filone di film come La terra, L'uomo nero, una pellicola mai banale, malgrado la semplicità di una trama di fondo che potrebbe ricordare una commedia. Nell’incursione al surreale, al tema di una favola che vista oggi appare quasi assurda in cui le donne appaiono tutt’altro che fate turchine (vedasi la donna amata da Tonino, una brava Bianca Guaccero, dalle licenze molto ardite), si muovono ieraticamente in un dramma da camera che ricorda Dobbiamo parlare, due grandi attori come Papaleo e Rubini, capaci di agilità e leggerezza da film francese nei loro funambolici scatti.
Le rare inquadrature di un mondo “esterno” oltre quella terrazza, più frequenti nella parte finale (girata di notte con un buio che metaforicamente avvolge tutto come in Mio cognato) mostrano umanità sempre più coercitive e violente, nell’abisso dei ricordi della malattia mentale, nei simboli di un mondo atono, trepidante, in perenne corsa che insegue la vittima fino a rinchiuderla malgrado la saggezza di fondo di apparenti quisquilie.
Rubini, ereditando la grande tradizione italiana, nel dialetto barese che ci fa sorridere in alcune azzeccate scene, si avvicina a Pirandello (il matto che nella sua pazzia appare l’unico capace di rivelare verità inaspettate alla massa) condendo lontane note filosofiche con una cupa tradizione crepuscolare con rimandi a Quentin Tarantino su cui chimerica spicca una speranza in fuga dai demoni del passato: i cieli limpidi del Canada.
A cui i nostri (anti)eroi prosaicamente tendono.
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angelo umana
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venerdì 17 maggio 2019
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miseria e nobiltà, d'animo
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E' un film romantico Il Grande Spirito:Cervo Nero (Rocco Papaleo) ci mostra come vivere in una dimensione diversa, che prescinde dall'essere prigionieri della civiltà. Senza acqua e senza luce, bastano quelle che il cielo gli fornisce, sognando però di trasferirsi un giorno nelle praterie e tra i bisonti del Canada dov'è la sua tribù dei Sioux. La sua “abitazione” è poco distante dalle ciminiere dell'Ilva di Taranto che ardono sempre, ma lui il fuoco se lo fa da sé, come qualsiasi indiano. Si è ritirato dalla civiltà e dai problemi “moderni”, s'è lasciato tutto alle spalle.
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E' un film romantico Il Grande Spirito:Cervo Nero (Rocco Papaleo) ci mostra come vivere in una dimensione diversa, che prescinde dall'essere prigionieri della civiltà. Senza acqua e senza luce, bastano quelle che il cielo gli fornisce, sognando però di trasferirsi un giorno nelle praterie e tra i bisonti del Canada dov'è la sua tribù dei Sioux. La sua “abitazione” è poco distante dalle ciminiere dell'Ilva di Taranto che ardono sempre, ma lui il fuoco se lo fa da sé, come qualsiasi indiano. Si è ritirato dalla civiltà e dai problemi “moderni”, s'è lasciato tutto alle spalle. In un soffitto su un tetto della città vive del quasi niente che ha, anche dei favori dei condòmini, frequentato da una vicina che vuol bene e che porterebbe in Canada; lei vive in un appartamento del condominio sottostante, ma col marito “pappone” è serva e infelice. Cervo Nero è frequentato occasionalmente da un incaricato di quello che si presume essere un centro di salute mentale: lo vorrebbe far trasferire in una comunità protetta, ma il paziente, pur un poco squilibrato, si rifiuta e ne ha ben donde. L'incaricato ha mire private su quel soffitto. Sopra quel tetto s'è rifugiato il facente funzioni di “palo” in una rapina, chiamato “Barboncino” dai suoi colleghi rapinatori (è il regista e co-sceneggiatore Sergio Rubini), non affidabile e nemmeno tanto esperto, a lui la pistola non la darebbero neanche se esibisse analisi del sangue perfette... Eppure questo “palo” s'è portato via un borsone con la refurtiva di denaro e gioielli ed ora è inseguito dai complici. Esilaranti i discorsi in pugliese stretto tra i rapinatori e in tutto il film, sottotitolati! Tutto ricorda molto un altro film, anch'esso girato sui tetti, ma quelli di Napoli, Into Paradiso, e come questo anche Il Grande Spirito finisce a pistolettate.
Barboncino, che chiede a Cervo Nero se quell'abbaino è suo o abusivo, appare all'”indiano” come l'uomo del destino, colui che magari condividerà la sua visione del mondo e della vita, immaginaria. E forse ha ragione: quando avremo consumato tutti gli strumenti che la modernità e le ricchezze ci danno, scopriremo che non si può mangiare il denaro. E apprendiamo pure, da Barboncino, una fake-news, che gli indiani furono sterminati tutti quanti perché incapaci di dire bugie. C'è del genio sui tetti di Taranto!
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loland10
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martedì 14 maggio 2019
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tara...ilva
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“Il grande spirito” (2019) è il tredicesimo lungometraggio del regista-attore pugliese Sergio Rubini.
Taranto e la Puglia, il Sud e l’Ilva, il Silenzio e i fondi, le giostre lavorative e le ruberie sottobanco.
Sergio Rubini ci mette animo e passione in questo racconto fatto di impegni e disimpegni dove l’incontro tra Tonino e Renato, ovvero Cervo Nero e Barboncino. I nomi e i sottonomi, la città e i suoi tetti, la miseria con ladri e piccoli quartieri. Si apre un piccolo mondo nel destino non cercato nella fuga come panorama alla vita
vacua e inutile per gli ultimi e i diseredati.
Un western metropolitano o meglio da ‘piccionaia’ per una città estrema dove si vede poco ma si immagina tutto.
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“Il grande spirito” (2019) è il tredicesimo lungometraggio del regista-attore pugliese Sergio Rubini.
Taranto e la Puglia, il Sud e l’Ilva, il Silenzio e i fondi, le giostre lavorative e le ruberie sottobanco.
Sergio Rubini ci mette animo e passione in questo racconto fatto di impegni e disimpegni dove l’incontro tra Tonino e Renato, ovvero Cervo Nero e Barboncino. I nomi e i sottonomi, la città e i suoi tetti, la miseria con ladri e piccoli quartieri. Si apre un piccolo mondo nel destino non cercato nella fuga come panorama alla vita
vacua e inutile per gli ultimi e i diseredati.
Un western metropolitano o meglio da ‘piccionaia’ per una città estrema dove si vede poco ma si immagina tutto. Tra le luci offuscate mattutine, le ombre e penombre e gli sguardi dall’alto mentre lo smog industriale si alza e ammanta i colori notturni di case addormentate.
In un mondo pieno di basse qualità, di ladruncoli vili e di ragazzi facili al grilletti,
dove il sito e le sembianze funeree ritrovano gusto in un linguaggio dialettale, fangoso, slabbrato e impoverito l’incontro tra due volti contrapposti arriva ad essere un luogo fisico (nel senso vero) di non-senso, di itinerario, di prospettiva e di congiungimenti (ir)reali.
Una rapina, un palo, uno sparo e un borsone pieno: Barboncino è lì, sale le scale, vede il disastro, un amico per terra e un boccone prelibato. Apre la finestra e quasi senza pensarci scappa con il malloppo tra balconi, terrazze e tetti della città. La fuga è ben girata, gli amici di combriccola vedono e inizia la rincorsa fino ad un nascondiglio...e uno strano incontro. Il borsone sempre a fianco, una caduta da un’impalcatura e il preziosissimo denaro finisce sotto un cumulo di materiale edilizio. Una ferita alla gamba, una guarigione lenta e l’amico per caso si adopera per rigenerarlo.
Uno strano connubio con questo incipit coinvolgente e diverso, salutare e ironico. Nella Taranto del fumo industriale, le luci naturali e artificiali nascondono problemi e vizi, ruberie e raggiramenti.
Il terrazzo di arrivo diventa luogo di vista privilegiato e il binocolo prestato dal suo amico (silenzioso) portano immagini dei suoi ‘conosciuti di strada’. Un terrazzo sulla città (quasi il set di memoria hitchcockiana) uno sguardo sul mondo inferiore, un set fuori posto e segni lontani.
Un film che spia, che osserva, che chiosa cartoline senza un vero saluto, che cimenta spiragli di contrapposte vite senza fini.
Un Sioux che vuole vincere la sua battaglia contro un nemico che non si vede, un ladruncolo debosciato che vuole uscire dal lunario da tutti abbandonato; il grande spirito aleggia. Un fuori di testa e un fuori di fuga che stranamente si conoscono senza saperlo, si aiutano senza chiederlo, si salvano dal nulla promettendosi il nulla. Tonino e Renato sono indesiderati, debosciati, ultimi e con menti contorte.
Immune da difetti, indiavolato e per quanto (im)mobile, ogni momento pare silenziosamente efficace e (im)pertinente desiderante. Un film dove il gioco dell’incontro si scalda senza calore e si spegne senza lo stoppino di una candela. Nel mentre la città s’addormenta e si sveglia i tetti guardano un alto forno e un fumo perenne, un marchio di ieri e dell’oggi gramo.
Gente di Taranto invisibile e indiana, gente che si accontenta, gente che subisce e quel finale in odore di pallottole è la battaglia invisibile tra estreme vite senza una notizia, tra volti che amano se stessi....senza profumi.
E il passo veloce di Tonino tra un lungomare e la fila di auto si scompone per fuggire. Un ‘Oltre Taranto’ verrebbe da dire (quasi verseggiando in modo truce l’aplomb di Peter Sellers di ‘Oltre il giardino’ del 1979) alla conquista di un luogo ancora da conoscere.
Sioux o non sioux, esperimento o fatuo incontro, sorpresa o nascondiglio: ecco che Cervo Nero balla, senza paure alcune, aspetta la sua redenzione. Quasi uno scompiglio nei piani di Barboncino. Un animale che incute paura e un animale senza padrone: uno sconfitto per sconfitti. È il ‘verismo’, crudo, mesto e volgare di una città che vuole ribellarsi e ‘balla’ con l’indiano per svegliarsi piena di vita. È il simbolo (i.l.v.a.): innocua, libera, vittoriosa e amara.
Rocco Papaleo (Renato) ha il personaggio della sua vita, riesce a guadagnare molti punti e ad essere dentro il suo movimento sempre. Ha trovato la grandezza sprecandosi senza un tetto e sbucando senza un volto. Vive in pausa perenne tra visioni dall’alto e uno spirito ancora inarrivabile. Finalmente, verrebbe da dire, un ruolo prettamente misero ma efficace, con occhiali coprenti, una barba incolta e un vestiario post rionale. Il bel volto scarno e asciutto scava il sogno irreale di un mondo sconosciuto. E Barboncino incontra un qualcuno che suona la carica finale quando non ci sei e fuori schermo. Un ballo sioux e un passo di danza da western perduto per sempre. Un colpo di freccia e un colpo di teatro che rasentano una tenerezza infantile con un sangue rosso che azzera la morte della Taranto sconosciuta sopra dei balconi dispersi tra porte di sicurezza, scale interne e parabole moderne mentre l’Ilva dal fondo sfuma rabbia e spadroneggia nenia nel languido panorama verso il mare.
Sergio Rubini(Tonino) ammonisce il suo personaggio e da il la al suo dirimpettaio Rocco Papaleo. Un dono a chi ha di fronte. Il gesto del binocolo è solo un inizio. Ma il regalo è una partecipazione strana, composita e surreale. Una recitazione a soggetto, quasi inventata, con sottotitoli per un dialetto non sempre comprensibile.
Forse un’asciuttezza e una maggiore attenzione al linguaggio avrebbe giovato all’intera pellicola. Restano i sali scendi delle scale e scalini con un senso metaforico convincente. Fotografia (Michele D’Attanasio) di grande impatto tra diurni e notturni, mestizie e panorami. Musica (Ludovico Einaudi) sincera ed elegante, ansiosamente serale. Regia presente, pastosa e sentita.
Voto: 7/10 (***).
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joecondor
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domenica 12 maggio 2019
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un grande film di rubini...da non perdere
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Gran film di Rubini dalla Terra mi mancava tranne il carino Dobbiamo Parlare ma come con la Terra ha fatto centro così con questo film Grande Soggetto,2 grandi interpretazioni di Rubini ed il migliore Papaleo, un personaggio indimenticabile.Un film da non perdere
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alle 72
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domenica 12 maggio 2019
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fantastico
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Storia surreale che potrebbe scadere in ogni momento ma in realta si sviluppa egreggiamente. Sia Rubini sia Papaleo sono fantastici, ma anche Teresa. Era una scomessa andare a vederlo ma la scomessa e stata vinta. Lo consiglio a chi ama il buon cinema italiano
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marco
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sabato 11 maggio 2019
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sorpresa inaspettata, gran film
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Film con una sceneggiatura e fotografia bellissime. Tra i migliori film visti quest'anno
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minleo
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sabato 11 maggio 2019
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un gioiello surreale
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Siamo andati al cinema senza troppe aspettative e ci siamo trovati di fronte a un piccolo gioiello. Surreale e a tratti bizzarro, ma anche profondamente calato nella realtà locale, Ilva sullo sfondo. I due personaggi principali creano una sinergia magistrale che dà forza e propulsione alla storia. La vicenda per lo più si sviluppa sui tetti e resta in alto, in una dimensione onirica, senza mai cadere in basso nel sentimentalismo o nella banalità. Bella la fotografia, felicissima la scelta del dialetto.
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venerdì 10 maggio 2019
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bel film, davvero!
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bel film, ricco di contenuti che fa passare tutti i 113 minuti d' un fiato. Era tempo che non vedevo un film di questo tipo, mi è veramente piaciuto, tra qualche sorriso amaro e moltissimi spunti di riflessione. Il buon cinema italiano è ancora vivo!
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cinzia
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sabato 4 maggio 2019
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grande spirito, bellissimo film
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Sono nata e cresciuta in quei posti e in quei posti ci si ammala di solitudine se si conserva un grande spirito, proprio come cervo nero. Adoro questo film perché rappresenta un po’ la mia storia e quella di molti altri cresciuti li, tra miseria e nobiltà tra il non essere compresi e il restare sospesi tra i tetti per non ammalare ulteriormente lo spirito! Adoro la musica che Ludovico Einaudi in maniera divina ha saputo costruire attorno alle scene, al fuoco al male e al bene! Questo film attraverso anche solo la musica e le scene puoi capirlo e comprenderlo, Rocco Papaleo ha dimostrato un nuovo modo di essere, ha rappresentato gli invisibili ed è per questo che lo ringrazio, senza saperlo ha rappresentato la mia storia.
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Sono nata e cresciuta in quei posti e in quei posti ci si ammala di solitudine se si conserva un grande spirito, proprio come cervo nero. Adoro questo film perché rappresenta un po’ la mia storia e quella di molti altri cresciuti li, tra miseria e nobiltà tra il non essere compresi e il restare sospesi tra i tetti per non ammalare ulteriormente lo spirito! Adoro la musica che Ludovico Einaudi in maniera divina ha saputo costruire attorno alle scene, al fuoco al male e al bene! Questo film attraverso anche solo la musica e le scene puoi capirlo e comprenderlo, Rocco Papaleo ha dimostrato un nuovo modo di essere, ha rappresentato gli invisibili ed è per questo che lo ringrazio, senza saperlo ha rappresentato la mia storia.... che dire, un film straordinario e due attori Sergio Rubini e Rocco Papaleo che hanno saputo raccontare in modo coraggioso tutto quello che è invisibile....
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