Meglio nudi che prigionieri della civiltà!
Urla così uno straordinario Rocco Papaleo nel quattordicesimo film diretto da Sergio Rubini dall’emblematico titolo Il grande spirito. Una storia che nasce come western crespuscolare e che si muove tra le spire velenose dei quartieri popolari di Taranto funestati dall’acciaieria Ilva e dalle guerre tra bande. In uno di questi palazzi, in una terrazza ingombra di catini, antenne e panni stesi dove i suoni della civiltà arrivano attutiti, vive un reietto (impersonato da Rocco Papaleo) che si fa chiamare Cervo Nero e che crede di essere un sioux in lotta contro l’uomo bianco, lo yankee.
Sguardo allucinato, un paio di occhiali, una consumata tuta blu e una bandana rossa stretta a mo’ di bandana cinta attorno alla testa, l’uomo dall’alto guarda lontano, scrutando l’orizzonte marcio della società che brucia, oltre la corruzione del sottosuolo magnificato. Un giorno vede arrivare un “suo simile”, un criminale di bassa leva, Tonino detto "Il Barboncino" (Sergio Rubini, allampanato nella sua mise di “capellone”) in possesso di un cospicuo malloppo sottratto ai suoi compari in una grottesca quanto rovinosa fuga in cui finirà mezzo azzoppato.
Inutile dire che tra Cervo Nero e Il barboncino, si creerà un legame di amicizia (lui lo curerà dalla ferita) e complicità. Riusciranno i nostri due prodi, in un’improvvisato duetto all’armata Brancaleone, a vincere la loro personale crociata contro gli uomini bianchi? O finiranno sbranati dal lupo per riuscire a difendere quel maledetto malloppo rimasto sepolto in un cantiere?
Il grande spirito si inserisce nel filone di film come La terra, L'uomo nero, una pellicola mai banale, malgrado la semplicità di una trama di fondo che potrebbe ricordare una commedia. Nell’incursione al surreale, al tema di una favola che vista oggi appare quasi assurda in cui le donne appaiono tutt’altro che fate turchine (vedasi la donna amata da Tonino, una brava Bianca Guaccero, dalle licenze molto ardite), si muovono ieraticamente in un dramma da camera che ricorda Dobbiamo parlare, due grandi attori come Papaleo e Rubini, capaci di agilità e leggerezza da film francese nei loro funambolici scatti.
Le rare inquadrature di un mondo “esterno” oltre quella terrazza, più frequenti nella parte finale (girata di notte con un buio che metaforicamente avvolge tutto come in Mio cognato) mostrano umanità sempre più coercitive e violente, nell’abisso dei ricordi della malattia mentale, nei simboli di un mondo atono, trepidante, in perenne corsa che insegue la vittima fino a rinchiuderla malgrado la saggezza di fondo di apparenti quisquilie.
Rubini, ereditando la grande tradizione italiana, nel dialetto barese che ci fa sorridere in alcune azzeccate scene, si avvicina a Pirandello (il matto che nella sua pazzia appare l’unico capace di rivelare verità inaspettate alla massa) condendo lontane note filosofiche con una cupa tradizione crepuscolare con rimandi a Quentin Tarantino su cui chimerica spicca una speranza in fuga dai demoni del passato: i cieli limpidi del Canada.
A cui i nostri (anti)eroi prosaicamente tendono.
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