Arbėria

   
   
   

Tra innovazione e tradizione Valutazione 2 stelle su cinque

di Ghisi Grütter


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giovedģ 12 dicembre 2019

Il primo film girato in lingua Arbëreshë ha il merito di portare sullo schermo la realtà di una minoranza che vive a tutt’oggi prevalentemente nel sud d’Italia. Prodotto con il contributo delle Regioni Calabria e Basilicata e di una serie di Comuni, “Arbëria” ha avuto il sostegno del MiBAC e della SIAE. Queste popolazioni sono venute in Italia dall’Albania in circa nove diverse ondate migratorie. Le prime erano ben viste dagli Aragonesi e gli venivano dati alcuni borghi e zone da ripopolare, svuotate per qualche epidemia o calamità naturale, mentre gli arbëreschë avevano l’interesse di intraprendere delle attività in una nuova terra. Più tardi gli Albanesi vennero in Italia per sfuggire agli Ottomani - dapprima contenuti dalla Lçega dei Popoli Albanesi creata nel  1444 da Giorgio Castriota detto "Skanderbeg" - che ebbero la meglio alla morte di questi dopo venticinque anni di lotte.

Queste minoranze vivono per lo più in Calabria e in Basilicata, in bilico tra integrazione e conservazione della loro identità, che significa innanzitutto lo studio della lingua, e la tutela e sopravvivenza delle tradizioni.

Nel film “Arbëria”, diretto dall’esordiente Francesca Olivieri, la protagonista Aida Greco (interpretata da Caterina Misasi) vive questa situazione in eterno conflitto. È fuggita dai luoghi nativi, dal borgo claustrofobico di Santa Caterina Albanese che la soffocava e dalle costrizioni. Invece di lavorare nella sartoria di famiglia ha cercato fortuna all’estero, per poi aprire un suo negozio a Roma, dove però non sembra essere felice.

Per la commemorazione della morte del padre, torna nel suo paese sulle pendici del Monte Pollino, dove viene criticata, accusata e continuamente rimproverata in particolare dal fratello Ascanio, rimasto vedovo anni prima. Forse il fratello è stato bisognoso di una figura femminile che si prendesse cura di sua figlia Lucia (interpretata da Brixhilda Shqalsi), che la seguisse nella crescita, ma Aida non c’è stata, si è sottratta a questo compito implicito nella tradizione, scegliendo comunque una sua emancipazione e affermazione come donna libera.

Aida, dopo aver rincontrato la sua bellissima nipote con la quale nasce una grande complicità, e dopo aver capito che la ragazza lì è felice perché ama la vita comunitaria che non la fa sentire sola e le dà il senso di continuità, sente di riscoprire la sua appartenenza a questo popolo. Rientrata a Roma inizia, a sentire il peso della sua solitudine e l’insoddisfazione di un rapporto affettivo con un attore di teatro sposato, con cui deve ritagliarsi gli spazi per i momenti di piacere.

La sua trasgressione, la rinuncia delle sue matrici, e la sua vita da single, quindi, le hanno portato solo il vuoto, giunta a una certa età in cui non si è più giovanissimi.

Peccato che la parte finale del film sia un po’ meno interessante perché, nonostante una serie di incubi le facciano capire le difficoltà della vita in quel paesino e i rischi che si possono correre vivendo lì, Aida abbraccia una morale semplicista di ritorno all’ovile, dove sembra che tutto si sia ricomposto e l’accettazione del suo ruolo (di donna) porti la serenità.

Le immagini sono molto belle, così come luci e fotografia, ma ciò che incanta è la musica (Luigi Porto) e i canti che accompagnano ogni gesto della vita. Affascinate è il grande senso del teatro che ha questa popolazione che inserita nel paesaggio spettacolare della natura incontaminata del Parco naturale del Monte Pollino, ricorda le rappresentazioni di tragedie greche.

Il film, dopo aver riscosso successo al festival del film Albanese presso la Casa del Cinema di Roma e all’International Film festival di Tirana, ha ricevuto il premio “Anna Cenerini Bova” dall’Associazione Occhi Blu.

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