temat825
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domenica 28 febbraio 2021
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capolavoro
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Ca-po-la-vo-ro! Come altro definirlo? Visto in streaming a sette anni dall'uscita, mi ha letteralmente rapito nei suoi tempi dilatati, nei suoi lunghi silenzi alternati a complessi dialoghi, tutti però - e qui sta il tocco del maestro - assolutamente necessari. Ma necessari a cosa? A raccontare vite in trappola, prigioniere soprattutto delle proprie contraddizioni, e poi - quasi a sorpresa, altro tocco da maestro - una delle più struggenti storie d'amore che io abbia visto sullo schermo. Se poi aggiungiamo recitazione, messinscena e fotografia, tutte perfette e come il resto funzionali, direi che ce n'è più che abbastanza per assaporare ognuno dei 196 minuti di questo magnifico spettacolo.
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gbavila
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giovedì 25 aprile 2019
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le sicurezze sono gabbie
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Abbiamo bisogno di sicurezze e le ricerchiamo con faticosa tenacia finendo col soffocare in questa gabbia di sordità. Aydin, il protagonista, ricorda il messaggio di Omar Sharif, incontrato anni addietro mentre faceva un film da quelle parti, che essere attori signiifica essere onesti e la ricetta gli sembrava giusta, e semplice. Lui un ex attore mai arrivato al successo e forse a questa grande onestà, ora arriva alla consapevolezza di una vita solo apparentemene corretta, onesta: non costringe nessuno al suo volere e men che mai sua moglie, molto giovane e bellissima, a sposarlo, nè è responsabile di quanto fanno i suoi avvocati nella gestione delle sue cose, ne vuole rimanere fuori perchè si dedica ai suoi studi, ai suoi scritti, alle sue meditzioni profonde.
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Abbiamo bisogno di sicurezze e le ricerchiamo con faticosa tenacia finendo col soffocare in questa gabbia di sordità. Aydin, il protagonista, ricorda il messaggio di Omar Sharif, incontrato anni addietro mentre faceva un film da quelle parti, che essere attori signiifica essere onesti e la ricetta gli sembrava giusta, e semplice. Lui un ex attore mai arrivato al successo e forse a questa grande onestà, ora arriva alla consapevolezza di una vita solo apparentemene corretta, onesta: non costringe nessuno al suo volere e men che mai sua moglie, molto giovane e bellissima, a sposarlo, nè è responsabile di quanto fanno i suoi avvocati nella gestione delle sue cose, ne vuole rimanere fuori perchè si dedica ai suoi studi, ai suoi scritti, alle sue meditzioni profonde. Ma la vita scorre intorno a lui con tutte le tragedie e le solitudini che ci chiamano a un'attenzione che prima o poi ci presentano il conto e l'illusione di autosufficienza svanisce. La gabbia si rivela inesorabile e la sola "ragione" o "giustificazione" non può bastare, non abbiamo combattuto il male con il bene, come sognava la sorella di Aydin, non abbiamo allargato l'orizzone della moglie di Aydin, non abbiamo impedito al sasso del fanciullo di rompere l'isolamento del fragile finestrino per vendicare l'umiliazione di suo padre. Il rimpianto giova solo alla natura libera di un cavallo, anche lui finito in una dura gabbia dopo una commovente lotta. Ottima l'associazione musicale con lo straziante "andantino" della sonata di Schubert magnificamente eseguito dal Paul Lewis. Grande Ceylan.
Giuliano Bavila
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ennio
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mercoledì 24 aprile 2019
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tanti caffè per non addormentarsi
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"Il regno d'inverno" è un film ambientato tra gli splendidi altipiani della Cappadocia, nelle "case delle fate" scavate nella roccia naturale. Ciònonostante, il film è (purtroppo) composto al 90% di dialoghi lenti che scorrono in stanze chiuse e poco illuminate, dialoghi troppo spesso cervellotici e sofistici, tra gente annoiata dalla vita, nevrotica e nevrotizzante. Decisamente troppo per un film che dura più di tre ore. Specialmente la sorella del protagonista in ciò risulta negativa e fastidiosa.
Se volete un bel film di dialoghi, rivolgetevi a "La maman et la putain" di Rivette, lì la parola è sempre viva, creativa, è una sfida continua e non una stanca riflessione interiore.
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"Il regno d'inverno" è un film ambientato tra gli splendidi altipiani della Cappadocia, nelle "case delle fate" scavate nella roccia naturale. Ciònonostante, il film è (purtroppo) composto al 90% di dialoghi lenti che scorrono in stanze chiuse e poco illuminate, dialoghi troppo spesso cervellotici e sofistici, tra gente annoiata dalla vita, nevrotica e nevrotizzante. Decisamente troppo per un film che dura più di tre ore. Specialmente la sorella del protagonista in ciò risulta negativa e fastidiosa.
Se volete un bel film di dialoghi, rivolgetevi a "La maman et la putain" di Rivette, lì la parola è sempre viva, creativa, è una sfida continua e non una stanca riflessione interiore.
Fortunatamente nell'usanza turca si offre spesso e volentieri thè o caffè all'ospite di turno, e questo è un buon modo di stare svegli anche per lo spettatore.
Per il resto, il protagonista riesce simpatico perchè ricorda tantissimo Ugo Tognazzi (anche nella voce del doppiatore). Anche gli altri co-protagonisti meritano un plauso per la recitazione, è solo grazie a loro se il film si salva da una cappa di pesante vuoto esistenziale salottiero.
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niccol� martini
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mercoledì 6 aprile 2016
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il regno d'inverno
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Film veramente bello, bqsato tutto su dialoghi e spazi ristretti
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great steven
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venerdì 12 giugno 2015
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dritto al cuore di un'umanità pronta alla riscossa
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IL REGNO D'INVERNO – WINTER SLEEP (TURK/FR/GERM, 2014) diretto da NURI BILGE CEYLAN. Interpretato da HALUK BILGINER, MELISA SOZEN, DEMET AKBAG, AYBERK PEKCAN, SERHAT MUSTAFA KILIC, NEJAT ISLER, TAMER LEVENT
Palma d’oro al Festival di Cannes 2014. In un villaggio sperduto nell’Anatolia, nel quale giungono quotidianamente turisti interessati alle antiche abitazioni che formano quasi un corpo unico con la roccia, Aydin gestisce un piccolo ma confortevole albergo, l’Othello. Costui è anche proprietario di diverse residenze i cui inquilini non sempre riescono a pagare l’affitto e vengono dunque puniti col sequestro di televisore e frigorifero.
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IL REGNO D'INVERNO – WINTER SLEEP (TURK/FR/GERM, 2014) diretto da NURI BILGE CEYLAN. Interpretato da HALUK BILGINER, MELISA SOZEN, DEMET AKBAG, AYBERK PEKCAN, SERHAT MUSTAFA KILIC, NEJAT ISLER, TAMER LEVENT
Palma d’oro al Festival di Cannes 2014. In un villaggio sperduto nell’Anatolia, nel quale giungono quotidianamente turisti interessati alle antiche abitazioni che formano quasi un corpo unico con la roccia, Aydin gestisce un piccolo ma confortevole albergo, l’Othello. Costui è anche proprietario di diverse residenze i cui inquilini non sempre riescono a pagare l’affitto e vengono dunque puniti col sequestro di televisore e frigorifero. Aydin ha sposato una donna molto più giovane di lui, di nome Nihal, e vive insieme anche alla sorella Necla, che ha raggiunto i due coniugi dopo il divorzio. Aydin, in passato, lavorò come attore e ora sta cercando di mettere assieme le idee per scrivere una storia del teatro turco. Film molto difficile sia da interpretare che da recensire, soprattutto per un suo difetto che però, paradossalmente, assurge anche ad inaspettata virtù: ha la pretesa di passare per opera sinteticamente silenziosa e contemplativa, ma al tempo stesso è attraversato da numerosi dialoghi che ne riempiono la cupezza e tetraggine delle sequenze immerse nei paesaggi brulli e molto espressivi della Cappadocia. Ne risulta che la descrizione narrativa si distingue in maniera eccellente tanto per un quadro tecnico di tutto rispetto quanto per una sceneggiatura strutturata abilmente in dissolvenze verbali, loquacità prorompenti e momenti di calma piatta che precedono moderati colpi di scena in grado di stravolgere l’unità di una vicenda che, malgrado la lunghezza di metraggio non indifferente, tiene incollati allo schermo per convincere gli spettatori a seguire gli sviluppi di una storia davvero interessante e accattivante. Qualcuno potrebbe obiettare che si ha a che fare con una pellicola adeguata esclusivamente agli asceti o a chi cerca comunque il raggiungimento di una pace interiore attraverso la macerazione e l’isolamento, e non avrebbe in fin dei conti tutti i torti: ma Winter Sleep è indirizzato anche ad un pubblico capace di sperare in un mondo migliore che, nonostante i cambiamenti radicali e gli imprevisti onnipresenti, sa seguire un ciclo paragonabile a quello delle stagioni che porta più o meno in egual misura il bene e il male. Echi letterari presi in prestito da Cechov e Shakespeare, e dei temi cari ai due drammaturghi emergono soprattutto un’angoscia esistenziale (comunque non invincibile) e uno scavo psicologico nelle più profonde motivazioni umane che conducono sia ad azioni positive sia ad atti che, pressappoco in modo diretto e immediato, sfiorano da vicino i delitti e i crimini. H. Bilginer è un perfetto protagonista che sa alternare con eccellente sapienza le espressioni facciali, la crudeltà recitativa e un pizzico notevole di autoironia che fa del suo personaggio un esempio funzionale di antieroe che cerca l’estrema soddisfazione passando per svariati labirinti di sofferenza, maturazione spirituale e variazioni del tono dell’umore. L’inverno fa la sua comparsa in particolar modo nel finale, esemplificando l’effimera parvenza della vita che è obbligata a seguire la ciclicità delle stagioni e specialmente, quando giunge il periodo più gelido dell’anno, deve costringere sé stessa ad un sonno letargico in cui riporre tutti i desideri, tutte le aspettative e ogni singola aspirazione per poi snocciolare il proprio corredo emotivo quando la neve si sarà sciolta e il sole riprenderà a illuminare le sporgenze rocciose e i declivi collinari di una Turchia che il bravo regista vede con l’occhio di un esaminatore attento agli sbalzi umorali, ai capricci volubili e ad una sorta di amore non completamente bello che però comprende al suo interno un monito speranzoso unente la voglia di riscatto e la volontà di ricominciare. Tra le scene più geniali, vale la pena di rammentare la rottura del vetro per mano del laconico bambino che vi lancia contro il sasso e la dichiarazione sentimentale e umanitaria di Nihal nella casa immersa nell’oscurità, salvo l’accensione del fuocherello nel camino.
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no_data
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lunedì 18 maggio 2015
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l' inverno del nostro scontento
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Film bellissimo in cui forma e contenuto si compenetrano e si completano a vicenda ,Non sai se compiacerti per la scenografia , o per la recitazione, o per i dialoghi o per la trama ,antica nella sostanza ma viva emoderna nell' impostazione .Un film fuori del tempo , un grande lezione di letteratura sceneggiata e di scenografia latteraria.
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kondor17
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lunedì 18 maggio 2015
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noioso e lungo
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Il film non decolla mai e si svolge tutto dentro le stanze della pensione Othello, sperduta in un sito di interesse naturalistico delle alture turche. Il proprietario, un ex attore teatrale, è un cinico e taciturno possidente immobiliare che lascia gli sfratti e i pignoramenti ad un fidato servo e aiutante e si dedica invece alla scrittura di articoli per un piccolo giornale locale. Il suo sogno è quello di scrivere un libro sulla storia turca del teatro. Altri personaggi e interpreti: la giovane moglie, che sprofonda nella noia. La sorella appena separata, che fa interminabili visite allo studio del fratello, cercando di infondere in lui l'angoscia e la frustrazione che la sta facendo impazzire.
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Il film non decolla mai e si svolge tutto dentro le stanze della pensione Othello, sperduta in un sito di interesse naturalistico delle alture turche. Il proprietario, un ex attore teatrale, è un cinico e taciturno possidente immobiliare che lascia gli sfratti e i pignoramenti ad un fidato servo e aiutante e si dedica invece alla scrittura di articoli per un piccolo giornale locale. Il suo sogno è quello di scrivere un libro sulla storia turca del teatro. Altri personaggi e interpreti: la giovane moglie, che sprofonda nella noia. La sorella appena separata, che fa interminabili visite allo studio del fratello, cercando di infondere in lui l'angoscia e la frustrazione che la sta facendo impazzire. Un imam, sfrattato con il fratello e il nipote dall'abitazione e un altro manipolo di persone, chiamate dalla moglie a una raccolta.fondi per le.scuole.
A parte un paio di bellissime scene esterne (la.cattura e la liberazione del cavallo, tra tutte) i 196 minuti di questo interminabile film si svolgono tutti all'interno delle stanze dell'Othello, con colloqui surreali e grotteschi, che ricordano quelli del primo, ineguagliabile, Nanni Moretti. Il regista è indubbiamente abile e un'opera del genere è quantomeno coraggiosa, ma per me andava meglio per il teatro, che per il cinema. Ottimi gli attori, grazie a dio.
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mara65
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lunedì 16 marzo 2015
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bello, ma non fino in fondo
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L'assenza di musiche nei film di Ceylan è una costante. Questo può essere un pregio, ma anche un difetto. Le musiche arricchiscono e accrescono le emozioni. Il regista, privandosene dimostra di saperci fare, di essere un regista autentico, che racconta la realtà così com'è, senza trucchi. Però si espone alla mancanza di trama e/o emozioni, che anche qui, qualcuno lamenta. In realtà la trama c'è. C'è molto più che nei film della commedia italiana o peggio ancora di quella americana. E' sbagliato dire che non c'è trama. La storia ed il percorso (non solo interiore) di Aydin è marcato. La vita della sua incantevole moglie, incastonata in un mondo che non le appartiene (cosa ci fa una donna meravigliosa in un contesto dove non esiste la bellezza?) racconta fin troppo.
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L'assenza di musiche nei film di Ceylan è una costante. Questo può essere un pregio, ma anche un difetto. Le musiche arricchiscono e accrescono le emozioni. Il regista, privandosene dimostra di saperci fare, di essere un regista autentico, che racconta la realtà così com'è, senza trucchi. Però si espone alla mancanza di trama e/o emozioni, che anche qui, qualcuno lamenta. In realtà la trama c'è. C'è molto più che nei film della commedia italiana o peggio ancora di quella americana. E' sbagliato dire che non c'è trama. La storia ed il percorso (non solo interiore) di Aydin è marcato. La vita della sua incantevole moglie, incastonata in un mondo che non le appartiene (cosa ci fa una donna meravigliosa in un contesto dove non esiste la bellezza?) racconta fin troppo. Mette sul piatto della bilancia tanti fatti, molti più di quelli che Ceylan era abituato a rappresentare. I dialoghi diventano quasi logorroici in confronto ai suoi lavori precedenti, fatti per lo più di sguardi e silenzi. Il film è bellissimo, ma non fino in fondo perchè qualcosa manca. Dal mio punto di vista avrei dato più spazio ai paesaggi mozzafiato. Avrei accorciato i dialoghi inutili, che se da una parte servono per spiegare la noia che caratterizza gli abitanti di quei luoghi, dall'altra appesantiscono il ritmo. Gli interni claustrofobici, restituiscono la sensazione di lontananza dal resto del mondo: più volte ci si sofferma sull'utilizzo delle stufe a legna, unico modo (arcaico per la nostra società moderna) di scaldare le loro case. Ma gli interni alla fine soffocano il film. Si avverte quasi il bisogno di scene all'aperto, si sente la sensazione di mancanza d'aria e ci si augura che la macchina da presa possa scivolare all'esterno, come fa ad esempio nel precedente film C'era una volta in Anatolia, a mio avviso più bilanciato tra scene interne ed esterne, tra dialoghi e silenzi.
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arnaco
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venerdì 13 marzo 2015
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viaggio d'inverno
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Il regista ha scelto come leit-motif la Sonata n. 20 di Schubert ma, secondo me, ha pensato intensamente anche al Winterreisen e ai suoi significati esistenziali. Nel film io ho ritrovato il wanderer schubertiano nel suo vagabondare, il febbrile e candido tendere del viaggiatore Aydin verso l'abisso, Verso la morte, verso la fine. Il regno d'inverno è quindi un paesaggio di agghiacciante solitudine, è quanto resta della matrigna natura di leopardiana memoria, scampata al sonno invernale. Di qui gli animali morti nella neve, incontrati lungo il cammino e questo anziano ex-attore, che si nasconde nel suo studio, in contrasto con tutto e con tutti, a scrivere i suoi articoli, rifiutandosi di credere che nessuno li legge, risentito perché l'unica persona che li legge, la sorella, non li condivide.
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Il regista ha scelto come leit-motif la Sonata n. 20 di Schubert ma, secondo me, ha pensato intensamente anche al Winterreisen e ai suoi significati esistenziali. Nel film io ho ritrovato il wanderer schubertiano nel suo vagabondare, il febbrile e candido tendere del viaggiatore Aydin verso l'abisso, Verso la morte, verso la fine. Il regno d'inverno è quindi un paesaggio di agghiacciante solitudine, è quanto resta della matrigna natura di leopardiana memoria, scampata al sonno invernale. Di qui gli animali morti nella neve, incontrati lungo il cammino e questo anziano ex-attore, che si nasconde nel suo studio, in contrasto con tutto e con tutti, a scrivere i suoi articoli, rifiutandosi di credere che nessuno li legge, risentito perché l'unica persona che li legge, la sorella, non li condivide. Per questo trovo che il film sia pervaso dal principio alla fine di un inesorabile pessimismo. Più che il protagonista, che in verità non si allontana mai molto dal suo ritiro, è lo spettatore che compirà sinesteticamente un viaggio di immersione totale in tutto ciò che la parola non arriva a lambire nella complessità delle emozioni umane evocate e trasfigurate nei lunghi dialoghi con la moglie, con la sorella e con gli altri personaggi incontrati quasi casualmente. Solo alla fine scopriremo che Aydin è perdutamente innamorato della moglie che non lo ama e che solo adesso inizierà un viaggio senza meta consumato dal dolore, una lunga peregrinazione: il suo cammino sincronico nella diacronia del teatro Turco. Non sappiamo dove lo condurrà, forse nella stagione della morte e dell'assenza; sappiamo solo che prima di partire lascia virtualmente libera la giovane moglie, come già aveva fatto con il suo puledro che abbiamo visto fuggire al galoppo in uno scenario notturno, silente, assente di vita, verso campi ricoperti di neve e torrenti gelidi, eppure per lui più caldi della prigione in cui era trattenuto.
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nanni
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mercoledì 4 marzo 2015
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il regno d'inverno
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Il film vuole volare alto e ci riesce.
Dunque imperdibile.
Nuri Bilge Ceylan ci mostra, come poche altre volte mi sia capitato vedere, l’indefinitezza umana o meglio le fragilità e la parzialità della definitezza che antropologicamente sembra siamo condannati a realizzare e che illudendoci ci costringe ad una forma perenne di smarrimento mostrandoci patetici; quando cerchiamo di puntellare le nostre fragilissime personali certezze e inermi; quando cercando risposte ci riveliamo irrimediabilmente irrisolti.
Tragica e bellissima ( la più bella del film) la scena del cavallo che addomesticato viene oltraggiato nella sua reale natura rappresentando simbolicamente la vocazione umana all’autoingabbiamento.
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Il film vuole volare alto e ci riesce.
Dunque imperdibile.
Nuri Bilge Ceylan ci mostra, come poche altre volte mi sia capitato vedere, l’indefinitezza umana o meglio le fragilità e la parzialità della definitezza che antropologicamente sembra siamo condannati a realizzare e che illudendoci ci costringe ad una forma perenne di smarrimento mostrandoci patetici; quando cerchiamo di puntellare le nostre fragilissime personali certezze e inermi; quando cercando risposte ci riveliamo irrimediabilmente irrisolti.
Tragica e bellissima ( la più bella del film) la scena del cavallo che addomesticato viene oltraggiato nella sua reale natura rappresentando simbolicamente la vocazione umana all’autoingabbiamento.
Azzeccatissima la scelta di un luogo arcaico come la Cappadocia, immobile e sospeso nel tempo o forse meglio, che sembra fuori da ogni tempo.
Il tentativo, appunto patetico, di riscatto del protagonista produce un finale consolatorio che non si addice ad un film così affilato, ma il peccato, per un lavoro che va così in profondità , lo consideriamo veniale e lo perdoniamo di slancio.
Ciao Nanni.
p.s.
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