thedude1
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venerdì 15 agosto 2014
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nulla di nuovo, classico film hollywoodiano
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Idea dal buon potenziale quella che ha portato alla realizzazione di "Gravity", mache certamente non è stata sfruttata al meglio. Seppur comprensibili le difficoltà nello scrivere una trama ed una sceneggiatura per un film con un'ambientazione così estrema, qui è stato fatto un abuso di banalità e luoghi comuni: discorsi troppo banali tra i protagonisti, che sfociano in un goffo tentativo di introspezione dei personaggi, peraltro poco convincenti, insulsi monologhi strappalacrime degni del miglior Moccia, susseguirsi di situazioni impossibili che nemmeno in "willy il coyote", ma che immancabilmente vengono risolte in maniera ancor meno plausibile.
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Idea dal buon potenziale quella che ha portato alla realizzazione di "Gravity", mache certamente non è stata sfruttata al meglio. Seppur comprensibili le difficoltà nello scrivere una trama ed una sceneggiatura per un film con un'ambientazione così estrema, qui è stato fatto un abuso di banalità e luoghi comuni: discorsi troppo banali tra i protagonisti, che sfociano in un goffo tentativo di introspezione dei personaggi, peraltro poco convincenti, insulsi monologhi strappalacrime degni del miglior Moccia, susseguirsi di situazioni impossibili che nemmeno in "willy il coyote", ma che immancabilmente vengono risolte in maniera ancor meno plausibile... Apprezzabili alcune scene, invece, nelle quali si nota un minimo di estrosità del regista, che ci regala sensazioni forti mediante immagini veramente suggestive ed una colonna sonora semplice ma efficace. in conclusione, può essere apprezzato dagli amanti del genere, in cerca avventura ed effetti speciali , mentre chi privilegia i contenuti non troverà assolutamente nulla di nuovo.
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cress95
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martedì 7 aprile 2015
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cuarón reinterpreta lo stile fantascientifico
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L'ultima fatica di Alfonso Cuarón (già noto per l'ottimo "I figli degli uomini") tiene alto il nome del regista, regalando allo spettatore "uno scenario di sublime bellezza" (cit. "La Stampa") sul quale posare gli occhi per tutti i 90 minuti circa del film. Minuti tra l'altro carichi di azione, mai un momento di stanca, nessun preliminare, nessun compromesso: "Gravity" immerge il pubblico nelle meraviglie dello spazio profondo sin dal primo istante.
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L'ultima fatica di Alfonso Cuarón (già noto per l'ottimo "I figli degli uomini") tiene alto il nome del regista, regalando allo spettatore "uno scenario di sublime bellezza" (cit. "La Stampa") sul quale posare gli occhi per tutti i 90 minuti circa del film. Minuti tra l'altro carichi di azione, mai un momento di stanca, nessun preliminare, nessun compromesso: "Gravity" immerge il pubblico nelle meraviglie dello spazio profondo sin dal primo istante.
Un cast ristretto ma al contempo d'eccezione, nel quale brillano stelle del calibro di George Clooney (l'astronauta Matt Kovalsky) e Sandra Bullok (la Dott.ssa Ryan Stone). Ed è proprio con un Clooney allegro e spensierato a dispetto di una Bullok seria e preoccupata che si apre "Gravity". La profonda differenza caratteriale che si delinea tra i due personaggi si scopre, a mio avviso, necessaria per poter efficacemente comunicare i due distinti modi di intendere la profonda immensità dell'universo.
La trama è avvincente e credibile: per tutta la durata del film si assiste, letteralmente "col cuore in gola" (grazie ad un coinvolgimento unico dello spettatore, agevolato tra l'altro da frequenti scene in prima persona), ai disperati tentativi dei due protagonisti di sfuggire al terribile disastro di cui sono vittime. Il finale in particolare lo reputo un vero e proprio inno alla vita, uno tra i migliori dell'intera filmografia contemporanea.
Certo, l'aggraziata figura della Bullok fa da padrona, ma anche il Clooney fa la sua parte, anche se (forse) più con il suo nome che con la sua recitazione (tuttavia ritengo doveroso sottolineare l'essenziale ruolo dell'astronauta Kovalsky, peraltro magistralmente interpretato). Forse, a mio avviso, da un attore del rango di Clooney ci si poteva aspettare un po' di più, magari una partecipazione più attiva e marcata nel corso del film (nel quale compare praticamente solo negli atti iniziali e in una successiva, ma breve, scena), ma ovviamente di ciò non ne può essere colpevolizzato l'attore essendo queste precise scelte di regia, tra l'altro insindacabili, almeno dal sottoscritto.
In conclusione ritengo "Gravity" un capolavoro di emozioni, un film che non va semplicemente "visto", bensì vissuto attraverso i sensi e l'anima. Il dramma espresso dal Cuarón attraverso la sua ultima fatica altro non è che la rappresentazione dell'uomo, tradito dalla sua stessa ambizione e tecnologia, e per questo punito dalla natura (sotto questo profilo "Gravity" risulta essere un efficace "sequel spirituale" del mastodontico "2001, Odissea nello spazio", di Kubrik, più di quanto non pretenda di esserlo "2010, l'anno del contatto", di Peter Hyams), la quale tuttavia non riesce a prevalere, soccombendo infine dinanzi al più primordiale tra gli istinti, un ancestrale retaggio: l'istinto di sopravvivenza, vero e proprio protagonista del nuovo capolavoro firmato Alfonso Cuarón.
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kondor17
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lunedì 19 ottobre 2015
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lost in space... ma che noia!
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Due tecnici aerospaziali vengono inviati dalla nasa a 600 km dalla terra a riparare una stazione satellitare orbitante. Mentre Matt se la cava egregiamente, la compagna Ryan è alla sua prima missione ed è alquanto impacciata. Durante un intervento all'esterno, i due vengono colpiti dai detriti di un satellite nelle vicinanze, recentemente demolito. Grazie al jetbag, lo zainetto a propulsione, Matt riesce a trainare Ryan fin nei paraggi di un altro satellite russo, la cui navicella di emergenza non è però atta al rientro, per la fuoriuscita del paracadute di ammaraggio. Vaganti da una navicella all'altra, ammirando estasiati il mondo e il Gange e l'aurora da lassù, cullati in un caldo brodo primordiale che stimola domande esistanziali, solo Ryan riuscirà a raggiungere la navicella cinese il cui lem dovrebbe portarla a casa.
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Due tecnici aerospaziali vengono inviati dalla nasa a 600 km dalla terra a riparare una stazione satellitare orbitante. Mentre Matt se la cava egregiamente, la compagna Ryan è alla sua prima missione ed è alquanto impacciata. Durante un intervento all'esterno, i due vengono colpiti dai detriti di un satellite nelle vicinanze, recentemente demolito. Grazie al jetbag, lo zainetto a propulsione, Matt riesce a trainare Ryan fin nei paraggi di un altro satellite russo, la cui navicella di emergenza non è però atta al rientro, per la fuoriuscita del paracadute di ammaraggio. Vaganti da una navicella all'altra, ammirando estasiati il mondo e il Gange e l'aurora da lassù, cullati in un caldo brodo primordiale che stimola domande esistanziali, solo Ryan riuscirà a raggiungere la navicella cinese il cui lem dovrebbe portarla a casa.
Non mi dilungo molto. Il film è esteticamente ineccepibile e alcune sequenze veramente ben fatte. L'atmosfera è quella tipica che già conosciamo da tanti altri film di fantascienza e di missioni spaziali. Che altro? Due attori icone di Hollywood, un'ottima computer animation. E poi?
Niente giustifica la pioggia di oscar ricevuta. Di questo genere ho visto decine di film migliori che hanno ricevuto si e no una nomination (Sunshine, Interstellar, tra gli ultimi). Nel complesso veramente mediocre e banale.
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aloisa clerici
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lunedì 7 ottobre 2013
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il buio del vuoto è l'origine della vita
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Lo spazio nero è profondo, la luce del sole illumina una porzione della crosta terrestre. Immagini mozzafiato, per chi, come me, è abituata alle rassicuranti scene di tutt’altro genere di pellicola. Due esseri umani fluttuano. Parlano tra loro. Si tratta dei soli protagonisti visibili del film, la dottoressa Ryan Stone (Sandra Bullock) e dell’abile astronauta Matt Kowalski (George Clooney), impegnati in missione speciale a bordo dello space shuttle Explorer per riparare parti malfunzionanti di una stazione orbitante. Dopo 15 minuti di dialoghi, battute e aneddoti raccontati e vissuti tra i due in una apparente“atmosfera” di controllo e quasi grottesca calma, ha inizio un susseguirsi di eventi che segnano un ritmo incalzante a più di 90 minuti di vibrante tensione.
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Lo spazio nero è profondo, la luce del sole illumina una porzione della crosta terrestre. Immagini mozzafiato, per chi, come me, è abituata alle rassicuranti scene di tutt’altro genere di pellicola. Due esseri umani fluttuano. Parlano tra loro. Si tratta dei soli protagonisti visibili del film, la dottoressa Ryan Stone (Sandra Bullock) e dell’abile astronauta Matt Kowalski (George Clooney), impegnati in missione speciale a bordo dello space shuttle Explorer per riparare parti malfunzionanti di una stazione orbitante. Dopo 15 minuti di dialoghi, battute e aneddoti raccontati e vissuti tra i due in una apparente“atmosfera” di controllo e quasi grottesca calma, ha inizio un susseguirsi di eventi che segnano un ritmo incalzante a più di 90 minuti di vibrante tensione.
Un’imprevista tempesta di detriti si scaglia violentemente contro la stazione, a causa della distruzione di un vicino satellite, i due astronauti si trovano così, vittime dell’impatto, alla deriva, e vagano nello spazio, nel tentativo di sopravvivere e ritornare sulla Terra.
Ma lassù non c’è suono, non c’è ossigeno e non c’è gravità.
Il regista messicano Cuaròn era già stato apprezzato per il suo talento in diverse opere, Harry Potter e il prigioniero di Azkaban, Il labirinto del fauno, I figli degli uomini; ma quest’ultima, Gravity, catalogata forse imprecisamente come film di “fantascienza” è stata presentato fuori concorso alla 70° edizione della Mostra del Cinema di Venezia e, dopo pochi giorni dalla sua uscita, sta già facendo molto parlare.
La realizzazione degli straordinari effetti speciali eseguiti con mezzi moderni della computer grafica hanno richiesto 4 anni di lavorazione, e finalmente il 3D ha raggiunto, dopo tanti abusi e immeritati elogi, un senso poetico e intelligente.
Lo spettatore fluttua, danza e si dimena insieme agli astronauti nel nero del vuoto, viene persino invitato adentrare all’interno del casco che calzano, potendosi immedesimare in quello che sembra essere, tra respiri affannosi, paura e disorientamento, uno spaesante viaggio senza ritorno.
Il montaggio è assente, i movimenti di macchina, ora fluidi, ora convulsi, creano un andare sincopato che simula perfettamente la sensazione di angosciosa vertigine che dà il vuoto spaziale. La fotografia di Emmanuelle Lubezki poi, regala scenari di bellezza struggente, dove è possibile andare lontano non soltanto a livello fisico, ma anche metafisico, esplorando un Sé più profondo e intimo, dove la paura dà accesso a visioni interiori nel rapporto con l’infinito, con l’origine della vita. L’ingenuità di cavalcare il simbolo di rinascita attraverso la vita privata segnata da un trauma della dottoressa Stone, è forse l’unico anello di retorica che non si inserisce agli altri nella catena narrativa, ma in una forsennata danza nel nulla, una parvenza di stabilità è quasi d’obbligo, e così come nella densità del silenzio si ascoltano trasmissioni radio, una goccia sospesa a mezz’aria, è anche una lacrima di disperazione.
Aloisa Clerici
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benedetta spampinato
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sabato 19 ottobre 2013
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la lacrima di sandra bullock
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Se la Terra sembra già/ ormai un luogo privo risposte, adesso si tenta di cercarle nello spazio, proprio come fece S. Kubrick nel suo indiscusso capolavoro che fu “2001 Odissea nello spazio”del 1968. Tuttavia, qui non è presente il celebre monolite: rimane una domanda sottintesa, acquisibile quasi alla conclusione del viaggio. Qui c’è l’essere umano che si aggrappa ad un altro.
“Gravity” è uscito nelle nostre sale il tre ottobre, ma è stato presentato a Venezia già il 28 di agosto, accolto calorosamente dalla critica cinematografica.
Lo si definisce “il capolavoro dei film di fantascienza” per i suoi effetti speciali e per l’opera catartica di A. Cuarón, il regista messicano, capace di trasportare fisicamente lo spettatore all’interno di uno spazio infinito come quello dell’universo attraverso l’uso del 3D.
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Se la Terra sembra già/ ormai un luogo privo risposte, adesso si tenta di cercarle nello spazio, proprio come fece S. Kubrick nel suo indiscusso capolavoro che fu “2001 Odissea nello spazio”del 1968. Tuttavia, qui non è presente il celebre monolite: rimane una domanda sottintesa, acquisibile quasi alla conclusione del viaggio. Qui c’è l’essere umano che si aggrappa ad un altro.
“Gravity” è uscito nelle nostre sale il tre ottobre, ma è stato presentato a Venezia già il 28 di agosto, accolto calorosamente dalla critica cinematografica.
Lo si definisce “il capolavoro dei film di fantascienza” per i suoi effetti speciali e per l’opera catartica di A. Cuarón, il regista messicano, capace di trasportare fisicamente lo spettatore all’interno di uno spazio infinito come quello dell’universo attraverso l’uso del 3D.
Sandra Bullock e George Clooney sono complici di una spedizione sullo Space Shuttle. Fin qui tutto scorre lentamente sulla leggerezza data dall’assenza di gravità, tra lievi respiri e miti discorsi. Dopo una velocissima onda di detriti di un satellite esploso, i respiri si trasformano in sospiri.
La navetta spaziale viene distrutta e gli altri compagni di viaggio muoiono lasciando fluttuanti fotografie di vita terrena. Non è più l’orwelliano occhio ad annientare l’uomo, ma il misterioso determinismo dello spazio. Rimangono, così, l’ingegnere biomedico e il comandante prossimo alla pensione. Qualcosa va storto e i due, dopo la magica immagine di una stretta di mani per non cadere nel vuoto, finiscono per perdersi e poi ritrovarsi e poi, ancora, perdersi. È l’uomo che combatte solo con se stesso ma, alla fine e quasi inevitabilmente, costretto ad incontrare la coscienza della forza, del coraggio, della ragione. Questi,infine, porteranno l’essere umano a ritornare per terra, toccarla, respirare l’aria limpida e ringraziare il Mistero di cui siamo fatti. L’essere umano ritorna alla natura, solo e grato, un po’ come l’indimenticabile Tom Hanks in "Cast away".
Gli errori tecnici del film sono tanti, ma Tom Huddleston ha tuttavia confermato che “Gravity è una delle conquiste più suggestive della storia degli effetti speciali” anche se, è doveroso ammetterlo, il 3D è risultato di un abominevole fotografia. Togliendo la suggestiva immagine di una lacrima della Bullock che si dirige verso lo spettatore, la mancanza di quegli insulsi occhialini avrebbe di certo reso delle migliori tinte sullo schermo, una storia più fascinosa, poetica.
Il film si è comunque beccato le lodi dei premi: Miglior attrice dell’anno alla Bullock e il Future Film Festival Digital Award a Venezia. Pennellate di sentimentalismo tra i protagonisti a parte, c’è da chiedersi perché si è tornati sullo spazio, sempre alla posizione fetale (ancora evidenti richiami a Kubrick).
Cosa andiamo cercando sullo spazio ignorando l’amore per la terra in cui credeva il profetico Nietzsche?
Forse il “Tutto in fuga” di Montale è focalizzato su quel “grazie” finale, forse sulla forza di volontà dell’uomo. Di certo, “Gravity” è il segno di una ricerca ancora taciuta.
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hal 10000
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mercoledì 26 marzo 2014
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l'elegante danza verso la "terra"
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Il cinema è un potente dispositivo di narrazione che, attraverso la sua peculiare articolazione simbolica, ovvero grazie alla fusione di immagini, suoni e parole, permette l'esemplificazione artistica in maniera originale e innovativa, nonchè la rappresentazione espressiva di concetti, sensazioni, punti di vista, "mondi". L'inquadratura si fa metafora, trasposizione al di là del mero apparire, tappa imprescindibile verso la delineazione di un progetto strutturato, dimodochè la fabulazione possa lasciare un ampio margine alla congettura, anche solo per appurare l'assenza di un disegno. Gravity ne è l'esempio: l'avventura spaziale rimanda perspicuamente e prepotentemente ad un rocambolesco viaggio interiore, condotto a passi di danza sull'instabile cammino del cosmo, verso il superamento del dolorifico vuoto circostante, dell'immensità indefinita dell'incertezza, della sublime coscienza umana della propria grottesca e pantagruelica minutezza.
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Il cinema è un potente dispositivo di narrazione che, attraverso la sua peculiare articolazione simbolica, ovvero grazie alla fusione di immagini, suoni e parole, permette l'esemplificazione artistica in maniera originale e innovativa, nonchè la rappresentazione espressiva di concetti, sensazioni, punti di vista, "mondi". L'inquadratura si fa metafora, trasposizione al di là del mero apparire, tappa imprescindibile verso la delineazione di un progetto strutturato, dimodochè la fabulazione possa lasciare un ampio margine alla congettura, anche solo per appurare l'assenza di un disegno. Gravity ne è l'esempio: l'avventura spaziale rimanda perspicuamente e prepotentemente ad un rocambolesco viaggio interiore, condotto a passi di danza sull'instabile cammino del cosmo, verso il superamento del dolorifico vuoto circostante, dell'immensità indefinita dell'incertezza, della sublime coscienza umana della propria grottesca e pantagruelica minutezza. La meta è la vita nella sua poliedrica concretezza. Di fronte allo spettatore si dipana il racconto di una faticosa rinascita dal difficile travaglio in quell'elegante scenografia del mistero della vita che è l'universo, la cui bellezza adamantina è serafica nel suo distacco, silenziosamente sibillina nell'indifferenza. Lo spazio diviene il luogo più vicino alle elucubrazioni metafisiche, si carica di romanticismo spiritualista, si riveste delle onerose proiezioni antropomorfiche ed oscilla tra parvenza onirica e lucida minaccia. La fantascienza si costruisce come medium dell'epopea dell'esistenza.
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giorpost
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martedì 3 marzo 2015
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tecnica, ritmo e pathos per l' odissea di cuarón
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Il vero appassionato di Cinema, colui che in una settimana consuma mediamente dai 3 ai 7 film perché altrimenti va in astinenza, colui che reputa la settima arte come forma terapeutica (del tutto omeopatica) rispetto al quotidiano, colui che quando riesce a trovare tempo e modo di fruire di un’ opera come la presente rammenta quanto sia fortunato a godere di tale passione, quel colui può trovarsi in difficoltà al cospetto di Gravity (USA, UK, 2013) di Alfonso Cuarón e potrebbe far fatica a riordinare il groviglio di pensieri scaturito subito dopo averlo visto.
Orbita terrestre, 600 km di altitudine. Un team di 5 astronauti è alle prese con la missione STS157 che ha lo scopo di riparare ed aggiornare i pannelli elettronici del famoso telescopio Hubble.
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Il vero appassionato di Cinema, colui che in una settimana consuma mediamente dai 3 ai 7 film perché altrimenti va in astinenza, colui che reputa la settima arte come forma terapeutica (del tutto omeopatica) rispetto al quotidiano, colui che quando riesce a trovare tempo e modo di fruire di un’ opera come la presente rammenta quanto sia fortunato a godere di tale passione, quel colui può trovarsi in difficoltà al cospetto di Gravity (USA, UK, 2013) di Alfonso Cuarón e potrebbe far fatica a riordinare il groviglio di pensieri scaturito subito dopo averlo visto.
Orbita terrestre, 600 km di altitudine. Un team di 5 astronauti è alle prese con la missione STS157 che ha lo scopo di riparare ed aggiornare i pannelli elettronici del famoso telescopio Hubble. La dottoressa Ryan Stone, alla sua prima prova sul campo dopo soli sei mesi di addestramento, è guidata dal veterano Kowalsky, alla sua ultima passeggiata nel cosmo a soli 75 minuti dal record di permanenza nel vuoto detenuto da un illustre collega russo che non riuscirà a battere. Il primo piano sequenza dura oltre un quarto d’ ora e la camera, senza mai staccare, ruota in circolo attorno allo Space Shuttle inquadrando alternativamente i vari soggetti sospesi nel nulla in un turbinio di immagini sensazionali per le pupille più esigenti. La vista da lassù della Madre Terra è unica e la riproduzione fedele del telescopio ancorché delle sofisticate attrezzature scientifiche e delle tute spaziali ha dell’ incredibile: un imprinting del genere raramente è stato così efficace nel Cinema contemporaneo. Non si fa in tempo a terminare il lavoro perché parte da Houston (la cara, familiare ed irrinunciabile base della NASA) l' ordine di abortire immediatamente la missione per un imminente pericolo dato dal cumulo di detriti in avvicinamento a folle velocità sulla stessa orbita dell' Hubble e formatosi a seguito della involontaria distruzione di un satellite sovietico da parte di un missile della medesima potenza militare che ha determinato un effetto domino su altri satelliti artificiali. La repentina evacuazione viene subito interrotta dalla massa di frammenti che investe nave e telescopio, i quali in pochi attimi sono irreversibilmente danneggiati, oltre a provocare la morte su colpo di 3 astronauti, uno dei quali in modo atroce. La Stone perde il contatto con il cavo che la teneva ancorata e va alla deriva avvitandosi su se stessa. Disperata e sotto un comprensibile attacco di panico, la scienziata viene incitata e rassicurata via etere da Kowalsky il quale, dopo interminabili minuti, riesce rocambolescamente ad avvicinarla e riagganciarla grazie allo zaino a propulsione che solo lui ha in dotazione. I due cosmonauti, soli e senza appigli ed avendo oltretutto perso i contatti con Houston, cercano di raggiungere la “vicina” ISS, la Stazione Spaziale Internazionale, anch’ essa evacuata, danneggiata e distante decine di kilometri ma che rappresenta l’ unica ancora di sopravvivenza in un drammatico viaggio contro lo spazio, il tempo e la progressiva diminuzione di carburante e ossigeno.
Per il personaggio della biologa viene scelta Sandra Bullock, presentatasi sul set in una forma fisica invidiabile, corpo modellato, interprete di un ruolo double face ove prima recita con parsimonia e voluta fiacchezza al fianco del consumato e (fin troppo) istrionico George Clooney, poi in un crescendo costante arriva a mostrare il piglio della grande attrice scavando un solco tra lei e i personaggi femminili di pellicole sci-fi del passato, anche se preferisco classificare questa película più come space-drama o thriller “stellare”.
La super pagata interprete di Speed e Crash si cimenta in una difficile parte che si colloca a metà strada tra quella claustrofobica della leggendaria Ripley di Alien ed il metafisico Bowman di 2001: A Space Odyssey, in una lotta per la sopravvivenza che riconduce al Tom Hanks di Cast Away. La forza di quest’ opera, eseguita per tre quarti in CGI, sta proprio nella solitudine forzosa alla quale è costretta una ricercatrice che fino a pochi mesi prima lavorava in laboratori universitari dove “le cose cadono a terra” e dovendo oltretutto fare a pugni con un recente evento luttuoso avendo perso la figlia in un banale incidente scolastico. Lo scoramento e la sensazione di essere vicini alla fine scatenerà quella che presumibilmente può assimilarsi ad una inattesa forza spirituale o una più semplice reazione dell’ organismo rispetto alla volontà di sopravvivenza, tant’ è che la Stone ha un’ allucinazione nella quale l’ ormai scomparso Kowalsky, sacrificatosi per lei e scegliendo il cosmo come tomba, visto che non c’è più una signora Kowalsky ad attenderlo laggiù, gli suggerisce di utilizzare il modulo di salvataggio Sojuz (i russi tolgono, i russi restituiscono) come fosse in fase di ammarraggio usufruendo dei relativi propulsori. L’ intuizione è quella giusta e allora via verso lo step successivo rappresentato dalla stazione orbitante cinese, ultimo approdo prima del tentativo di rientro sulla Terra, con tanti ringraziamenti e preghiere rivolte alla povera primogenita che magari lassù, più vicina che mai, ha potuto aiutare la madre.
Il modulo di salvataggio ivi presente si chiama Shenzhou ed altri non è che un Sojuz replicato con scritte in cinese e quindi Ryan non avrà molte difficoltà ad avviarlo, iniziando un’ inesorabile ed incandescente caduta libera attraverso l’ atmosfera terrestre.
I giochi di luce fedelmente riprodotti grazie a migliaia di led, la tensione perenne, la paura trasmessa efficacemente, quel suono di esplosioni non propagabili nel vuoto, quella fotografia immaginifica, meritatamente premiata come tutto il resto del film, quelle musiche perfettamente allineate al contesto ed un montaggio del sonoro straordinario, quel ritmo incalzante che non ti fa annoiare nemmeno per un istante: questi aspetti consegnano all’ opera di Alfonso Cuarón i crismi del capolavoro.
E allora ritorno a quella prefazione nella quale volevo rimarcare l’ essere orgogliosamente cinefilo pur con sguardo critico ma non inutilmente dissacratorio, ritenendo che, in riferimento alle pretestuose e stucchevoli critiche sulla plausibilità scientifica di questo lavoro, un amante della pellicola non può o non dovrebbe nemmeno porsi il problema del sospendere l’ incredulità, semplicemente perché quando inizia un film occorrerebbe sospendere tutto quello che ci gira intorno.
Questo è un film di quelli che quando arriva ai titoli di coda vorresti subito rivederlo da capo, è una di quelle opere multiformi e totalizzanti che ti rapiscono e ti catapultano in un luogo spazio-tempo abbastanza definito dal quale vieni distolto solo a chiusura dell’ ultima riga di ringraziamenti da parte del regista.
Il regista messicano, ammirato a partire da quel meraviglioso Children of Men nel quale tutti abbiamo giustamente esaltato la sua tecnica registica, ha in quei suoi lunghi piani sequenza e nella qualità visiva un marchio di fabbrica, rinsaldato da un’ accorta e minuziosa ricostruzione scenografica degli esterni. Con Gravity non solo si conferma cineasta di culto ma ci lascia finalmente accorciare il confine che separa il comunque inarrivabile capolavoro di Kubrick del ’68 da tutto il resto, lasciando agli annali un’ odissea meno intimista e filosofica ma più vicina a noi, più ritmica, fatta di tensione e sublimazione tecnica. Nulla può esimermi dal consacrare Gravity come opera irrinunciabile e permanente, strepitosa avventura che fa riavvicinare alla vita protagonista e spettatore in una lotta fisica per quella sopravvivenza raggiunta quando la Bullock stringe tra le mani un pugno di soffice terra.
Voto: 9
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a.i.9lli
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martedì 9 febbraio 2016
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gravity e il mal di mare
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Dalla trama di Gravity non ci si può aspettare troppo: due astronauti, interpretati da Sandra Bullock e George Clooney, mentre sono impegnati in un'operazione di manuntenzione, vengono investiti da una pioggia di dedriti; quello che segue è l'ardua e quasi impossibile missione finale: salvarsi. C'è chi dice che Gravity è un film noioso, io non sono d'accordo, perchè c'è tanta azione, c'è tanto movimento, c'è tanto dialogo, benchè i protagonisti sono solo due ( e il ruolo dell'astronauta Kowalski grazie a battute ironiche al limite dell'appropriatezza in un contesto di grande tensione, sembra cucito addosso Clooney), c'è anche tanta riflessione, sulla solitudine, sui mostri che riaffiorano quando la mente è sola, e sulla capacità, in questa solitudine, di cavarsela, di farcela, di salvarsi.
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Dalla trama di Gravity non ci si può aspettare troppo: due astronauti, interpretati da Sandra Bullock e George Clooney, mentre sono impegnati in un'operazione di manuntenzione, vengono investiti da una pioggia di dedriti; quello che segue è l'ardua e quasi impossibile missione finale: salvarsi. C'è chi dice che Gravity è un film noioso, io non sono d'accordo, perchè c'è tanta azione, c'è tanto movimento, c'è tanto dialogo, benchè i protagonisti sono solo due ( e il ruolo dell'astronauta Kowalski grazie a battute ironiche al limite dell'appropriatezza in un contesto di grande tensione, sembra cucito addosso Clooney), c'è anche tanta riflessione, sulla solitudine, sui mostri che riaffiorano quando la mente è sola, e sulla capacità, in questa solitudine, di cavarsela, di farcela, di salvarsi. C'è anche tanta tensione, tanta ansia ad ogni scena, perchè niente sembra andare per il verso giusto, perchè questa Natura eterea, oltre l'atmosfera, è veramente maligna. ma soprattutto , guardando Gravity non può che venirti il maldimare, accusare ogni colpo per l'assenza di gravità, ti ruoterà tutto attorno, perchè il fulcro di questo film è questo: l'assenza di gravità, l'impossibilità di tenere i piedi per terra, che è poi la metafora che guida tutto la storia. E l'occhio del regista è magistrale, sullo spazio, sulla navicella, sui detriti, sui drammi, sulla sofferenza dei protagonisti che è vera, sentita e composta. E poi tecnicamente, Cuaròn riesce a ricreare l'assenza di gravità facendola sentire anche a chi è davanti allo schermo, come se fosse in uno di quei simulatori che trovi ai Lunapark.
Non è un film hollywoodiano, nè un film indipendente, ma è un film intenso,per un regista grande e potente.
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samanta
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sabato 11 febbraio 2017
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un eccesso di gravity
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Gravity al suo esordio ha avuto un grande successo di pubblico ed anche di critica, il film l'ho visto solo adesso in Tv e francamente pur dando un giudizio positivo non vedo il capolavoro, certamente tra cinquanta anni non se ne parlerà come ancora adesso di Odissea nello spazio. Vediamo i lati positivi: gli effetti speciali sono grandiosi e molto belli e meritano il premio Oscar come evidentemente il montaggio. L'interpretazione di Sandra Bullock (Ray Stone) è ottima ed efficace. Invece desta perplessità l'interpretazione di George Clooney (Matt Kowalskj), nel film l'astronauta si trova in situazione disastrosa: fa parte di un gruppo di astronauti inviati nelle spazio per riparare un gigantesco telescopio e mentre è al lavoro con la Stone vengono investiti dai detriti di altri satelliti distrutti da un missile a loro volta i detriti distruggono la navicella spaziale, uccidono l'equipaggio salvo i due protagonisti che vagolano nello spazio.
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Gravity al suo esordio ha avuto un grande successo di pubblico ed anche di critica, il film l'ho visto solo adesso in Tv e francamente pur dando un giudizio positivo non vedo il capolavoro, certamente tra cinquanta anni non se ne parlerà come ancora adesso di Odissea nello spazio. Vediamo i lati positivi: gli effetti speciali sono grandiosi e molto belli e meritano il premio Oscar come evidentemente il montaggio. L'interpretazione di Sandra Bullock (Ray Stone) è ottima ed efficace. Invece desta perplessità l'interpretazione di George Clooney (Matt Kowalskj), nel film l'astronauta si trova in situazione disastrosa: fa parte di un gruppo di astronauti inviati nelle spazio per riparare un gigantesco telescopio e mentre è al lavoro con la Stone vengono investiti dai detriti di altri satelliti distrutti da un missile a loro volta i detriti distruggono la navicella spaziale, uccidono l'equipaggio salvo i due protagonisti che vagolano nello spazio. Orbene Kowalskj si comporta con l'aplomb di un aristocratico inglese che nel '800 cacciava la tigre in India. Non un momento di agitazione e di perplessità comprensibile ma agisce con una tranquillità olimpica quasi indifferente a quello che sta succedendo anche nel momento in cui sacrifica la vita per salvare Stone. Qui a mio avviso si vedono i difetti della regia, inoltre la storia appare francamente inverosimile anche ad uno come me che non è un tecnico, il film è breve: 90 minuti, il regista avrebbe dovuto allungarlo con un prologo anche solo di pochi minuti per illustrare i personaggi che compongono l'equipaggio e non entrare subito in media res, in questo modo si sarebbe creata una maggiore empatia con il pubblico, da qui quindi anche una carenza nella sceneggiatura. Comunque il film è avvincente e lo si vede fino alla fine, ma mi pongo una domanda se si premia la regia solo per gli effetti speciali non è un pò troppo poco? Quell'anno 2014 era nella nomination un certo Martin Scorsese per Wolf of Wall Street pensate un pò!
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lucarossi
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lunedì 7 ottobre 2013
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sospesi nel vuoto
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Immaginate di librarvi nello spazio. Sotto di voi si staglia la gigantesca sagoma di un bellissimo pianeta azzurro: la Terra. Avete un jetpack e, manovrandone opportunamente le spinte, riuscite a volteggiare attorno a satelliti artificiali e shuttle, muovendovi nella più completa armonia. Lo spazio profondo è uno spettacolo che toglie il fiato. Sulla superficie del vostro amato pianeta riconoscete i luoghi che vi sono cari: ecco, lì c'è il continente dove si trova casa vostra. E lasciate vagare lo sguardo su feroci ammassi di nubi, sugli oceani cristallini, su foreste di un verde intenso.
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Immaginate di librarvi nello spazio. Sotto di voi si staglia la gigantesca sagoma di un bellissimo pianeta azzurro: la Terra. Avete un jetpack e, manovrandone opportunamente le spinte, riuscite a volteggiare attorno a satelliti artificiali e shuttle, muovendovi nella più completa armonia. Lo spazio profondo è uno spettacolo che toglie il fiato. Sulla superficie del vostro amato pianeta riconoscete i luoghi che vi sono cari: ecco, lì c'è il continente dove si trova casa vostra. E lasciate vagare lo sguardo su feroci ammassi di nubi, sugli oceani cristallini, su foreste di un verde intenso.
Immaginate di essere proprio lì... di esserci davvero. Non è un sogno, non è finzione. Siete sospesi, alle porte di un mondo, sulla soglia dell'universo.
Questa è la sensazione che si ha vedendo Gravity. È un film che dà vertigini, figlio del suo tempo. Alfonso Cuaròn non avrebbe potuto realizzarlo in un altro momento che non fosse il 2013. Perché in questo film, la tecnologia e gli effetti sono tutto. È una pellicola quasi da esteti, una sequenza di tuffi vertiginosi.
È da vedere al cinema e in 3d, non ci sono dubbi. È concepito e realizzato sulla base dell'esperienza tridimensionale. Cuaròn è uno di quei registi che non pensa più a trasporre i film tradizionali in 3d, ma elabora l'opera sulla base delle possibilità offerte dal nuovo mezzo
A molti spettatori Gravity lascia un senso di meraviglia, quella dolce sensazione che si prova quando si è bambini e ci si trova dinanzi a qualcosa di nuovo e incantevole.
La trama è povera, è vero. George Clooney e Sandra Bullock non sono particolarmente in forma. I dialoghi sono stentati e la vicenda della lotta contro le avversità e contro il proprio passato è un po' stereotipata. Prima di entrare in sala è opportuno dimenticare qualsiasi nozione di fisica appresa alle superiori. Ogni volta che penserete: "No, ma questo non è possibile!" sappiate che avete ragione. Eppure è un po' come quando gli spettatori andarono a teatro e si spaventarono di fronte a un treno che veniva loro incontro.
In questo caso, si ha invece la sensazione di essere sospesi nel vuoto. È un'emozione bellissima!
Recensione pubblicata in origine su www.lucarossi369.com.
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