Onora il padre e la madre

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Un film di Sidney Lumet. Con Philip Seymour Hoffman, Ethan Hawke, Albert Finney, Marisa Tomei, Aleksa Palladino.
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Titolo originale Before the Devil Knows You're Dead. Drammatico, durata 117 min. - USA 2007. - Medusa uscita venerdì 14 marzo 2008. MYMONETRO Onora il padre e la madre * * * 1/2 - valutazione media: 3,86 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

"Il segreto degli innocenti" Valutazione 5 stelle su cinque

di Alessandro Spata


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domenica 24 ottobre 2021

 Mi scuso anticipatamente se i contenuti di questa riflessione risulteranno ripetitivi ma non ho letto i commenti precedenti. Dunque, ho (ri)visto recentemente “Onora il padre e la madre” a tanti anni di distanza dalla sua uscita. Un titolo significativo quello italiano. Ma per il semplice motivo che conferma ulteriormente come gli addetti per mestiere alla traduzione dei titoli dei film stranieri, nel loro eroico sforzo di sintetizzare in poche parole il nucleo di un intero film dispongano evidentemente di un talento tutto particolare nel non capirci un bel nulla tante volte dei film in questione (ammesso che li abbiano visti). Un difetto di comprendonio per me talmente imperdonabile che avrei amato vedere a suo tempo gli incauti traduttori deferiti presso un qualche “tribunale dell’inquisizione spagnola” (se a quel tempo fosse esistito il cinema, si capisce). Ma a parte le note sadiche del mio carattere, immaginate cosa possa significare per un romanziere italiano ad esempio, vedere il titolo straniero del proprio libro stravolgere totalmente non solo il titolo italiano ma persino i temi stessi del libro. Emblematico a questo proposito fu “Uomini e no” il libro di Elio Vittorini che la leggenda vuole si fosse incazzato pare come una bestia quando l’incauto traduttore francese intitolò il suo libro con “Les Homme e les autre” che sconvolgeva ovviamente l’asse portante di tutto il testo nonché le intenzioni dell’autore italiano. Ma i registi stranieri non hanno proprio nessun controllo sulla traduzione dei loro titoli? Evidentemente no perché allora dovrebbero fare causa pure per certi doppiaggi, ma questa è un’altra storia.
Ma tornando al film in questione. Saranno stati gli spazi chiusi, i contesti claustrofobici ritratti nel film, luoghi (de)limitati dove predominano le inquadrature di ambienti interni. E poi le luci cupe e i colori foschi , freddi in cui si dibattono i personaggi. Luci e ombre di un’umanità senza speranza. O forse le musiche di Burwell (tra “Howard Shoree Michael Nyman”) struggenti al punto giusto come struggenti sono le espressioni dei protagonisti continuamente schiacciati dalla “nostalgia per qualcosa di cui erano consapevoli ma che ora hanno dimenticato”. Sopraffatti dai ricordi di qualcosa che hanno sempre desiderato ardentemente, ma che mai hanno vissuto. Oppressi  invece dalla paura, dalla vergogna, dai sensi di colpa, dall’odio, dal risentimento e dalla rabbia. Se avessi potuto avrei consigliato di tradurre il bel titolo inglese “Before the devil knows you ‘re dead" con - I segreti degli “innocenti” -. Dove l’espressione “innocenti” è ovviamente sarcastica e “segreti” è “indicativo di una negazione collettiva che si manifesta in famiglia come funzionale”. I segreti sono i tabù, i “non-detto”, i fantasmi che inibiscono il dialogo e deformano lo sviluppo e le dinamiche del nucleo familiare come sistema emotivo e relazionale.
Forse è per tutto questo che ancora una volta mi è venuto un parallelo con un altro film “Il silenzio degli innocenti”. Solo che qui di “innocenti” non c’è proprio ombra. Ma sarà pur vero che ci sono diversi gradi di responsabilità e che non tutte le colpe sono uguali? Vi ricordate il manifesto del “silenzio degli innocenti” che raffigura “Clarisse” (direi) con una farfalla che copre le sue labbra quasi a volerle chiudere. Un organismo così fragile in apparenza, la farfalla, simbolo di una bellezza eterea che sta li elegantemente ad otturare la bocca dell’inferno: perché sono proprio le nostre labbra che come un vaso di pandora rischiano di sprigionare tante volte tutto il peggio di cui un essere umano può essere capace. Un coacervo incontrollato di sentimenti, emozioni, intenzioni che possono rivelarsi devastanti per chi li esprime e per chi li subisce. E non c’è legame familiare che tenga, pare.
Forse aveva ragione il buon Marx lucido e fin troppo razionale osservatore delle cose umane quando proponeva che  - il processo della domanda e dell’offerta non è alla base soltanto della produzione di merci di consumo. Questa dialettica produce, pare, anche persone, caratteri, personalità e modella le relazioni umane -. Persino le relazioni del gruppo famiglia? La famiglia dentro la quale e in nome della quale si commettono spesso nefandezze inaudite. È proprio vero che i rapporti umani sono essenzialmente rapporti economici, dunque? E tuttavia continuo a pensare che – neppure la frequente denutrizione intellettuale e affettiva – nemmeno le recessioni economiche e i vari crack di Wall Street possono spiegare completamente certe aberrazioni di pensiero, certi agiti infami.
Sembra questo un film senza speranza. Ma non è poi così vero. Qui sembra in realtà che non siano né il destino, né il caso, né l’ambiente a guidare le nostre vite (non completamente, almeno) Sembra invece che siano le nostre scelte a condizionarci. I protagonisti sono vittime delle loro stesse libere azioni e non ci sono scuse ulteriori. Il messaggio di speranza risiede soprattutto nel voler dire che nonostante siamo continuamente sballottati tra destino, caso, esperienza, economia in questo bailamme si conserva comunque un piccolo spazio in cui possiamo ancora esercitare la libertà delle nostre scelte. Insomma il messaggio è bello e terribile e per lo stesso motivo. È bello perché posso scegliere; perché una parvenza di controllo sulla mia vita e ancora possibile. È terribile perché aumenta grandemente la responsabilità di ciascuno. Ma la responsabilità è bella alla fin fine perché vorrebbe dire che posso decidere pur sempre che direzione prenderà la mia vita. Non è sempre così ovviamente. Ma è tanto bello sentirselo ripetere ogni tanto.
Dal film sembra emergere un’umanità impazzita o meglio larappresentazione caotica e disarmonica” della società che finisce per restituirci individui disperatamente soli che “non fanno niente per niente”. Varianti “isolate” impazzite, che però sono “condannate” ad intrattenere relazioni funzionali con le altre parti altrettanto “isolate” altrettanto impazzite) del sistema, legati come sono inevitabilmente da reciproci rapporti di interdipendenza.
Non si capisce chi è la vittima e chi il carnefice qui. Siamo tutti succubi di quel meraviglioso e terribile istituto della famiglia da cui tutto si dipana secondo alcuni? Oppure schiavi di un inconscio collettivo, in preda a pulsioni irrisolte e oscure? Forse sta proprio qui la maestositàdel capolavoro di Lumet. Forse così si spiega la sua resistenza nel tempo. Questo è un film che avvilisce lo spettatore o lo esalta al contempo perché passa a lui/lei l’onere e l’onore della risposta. Allo spettatore è ancora una volta demandato l’arduo compito di terminare il film. Spetta a noi la scelta (ancora una volta) di decidere quale sia il significato ultimo. Un film “irrisolto” nel senso che non fornisce ricette universali ed è per questo che usciamo dalla visione del film atterriti e disgustati. La reazione di tutti coloro che non comprendono cosa gli sta succedendo. Forse è vero, siamo meno liberi di quanto crediamo, ma pur sempre liberi.
Scusate l’eccesso di retorica a tratti, ma sto scrivendo sopra le note della musica di Burwell.

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