C'era una volta in America

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Il Re LEONE Valutazione 5 stelle su cinque

di Flegiàs TN


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giovedì 27 marzo 2008

Ha scritto Godard a proposito del cinema di Ingmar Bergman: “Un film di Ingmar Bergman è, per così dire, un ventiquattresimo di secondo che si trasforma e si dilata per un'ora e mezzo. È il mondo fra due battiti di palpebre, la tristezza fra due battiti di cuore, la gioia di vivere fra due battiti di mani”. E ancora: “La sua macchina da presa cerca una sola cosa: cogliere il momento presente in ciò che esso ha di più fugace e approfondirlo per dargli valore d'eternità. Di qui l'importanza primordiale del flashback, dato che il movente drammatico di ogni film di Bergman è costituito solo da una riflessione dei suoi protagonisti sul momento e sul loro stato presente”. Da Quarto potere in poi, cioè dalla dimostrazione dell'impossibilità dell'interpretazione oggettiva del passato e, contemporaneamente, dell'illimitata possibilità analogica del cinema, questa è la tendenza dominante del cinema moderno: attraverso la storia, cogliere l'attimo, quello che conta davvero, presente. Ogni film è un rendiconto con carattere di ineluttabilità, anche se nessun film è chiuso nella propria parola “Fine”, ma da qualche altra parte, tra le pieghe di un'inquadratura. Ogni film è una ricognizione sul passato tesa a stabilire una verità presente; per questo il cinema offre più senso di morte che non di vita. Per questo, in ogni film c'è un ventiquattresimo di secondo che riassume un'esistenza intera, ed è, quindi, dilatabile a un'ora e mezzo o, come nel caso di Leone, a tre ore e quaranta. Il film di Leone è racchiuso tra due fumate d'oppio (la stessa, che ritorna) e tra due frasi che riassumono, se non due secoli di storia, certamente ottant'anni di narrazione cinematografica: quelle di NoodIes vecchio a Moe (“I vincenti si riconoscono alla partenza”) e al senatore Bailey/Max (“Molti anni fa avevo un amico, un caro amico. Lo denunciai per salvargli la vita; invece fu ucciso. Volle farsi uccidere. Era una grande amicizia. Andò male a lui, e andò male anche a me”). L'immagine dilatabile a senso complessivo dell'esperienza di NoodIes è quella, notturna e piovosa, in cui egli, anonimamente mescolato alla folla, vede i cadaveri dei tre amici che ha tradito. “Mitch, che cosa facciamo qui Mitch? Andiamocene via, ritorniamo giù al fiume, nel nostro rifugio”, balbettava perplesso e morente Robert Stack all'amico d'infanzia Rock Hudson che aveva appena tentato di uccidere. Anche se per Noodles, Max, Patsy, Cockeye, Dominic e Moe l'infanzia non è stata davvero una faccenda del genere “andare al fiume” (nel senso TomSawyeriano del termine), essa ha comunque il senso mitico dell'innocenza e della purezza di rapporti, sebbene secondo regole di violenza. Il tradimento degli amici è per NoodIes il punto di non ritorno. La rottura del codice dell'infanzia, la fine dell'innocenza. Noodles, che è l'eroe puro per antonomasia, non se ne riavrà mai più. “Cosa hai fatto tutti questi anni, Noodles?” “Sono andato a letto presto”. Cinematograficamente (e non solo), non ha vissuto. La scoperta dell'esistenza di una forma ben peggiore di tradimento, quella motivata esclusivamente dalla competitività e dall'arrivismo, non modifica la colpa di NoodIes; ne arrotonda semplicemente la fisionomia, abbinando al carattere della purezza il suo correlato classico, la sconfitta. Noodles è, banalmente, il più tipico dei loosers, una specie di incrocio tra Billy the Kid, Deke Thornton (che tradisce il “mucchio” per poi riassumerne gli ideali perdenti) e Cable Hogue, in pazientissima attesa dei compagni che lo hanno tradito. NoodIes e la sua storia sono la summa esplicita delle suggestioni del cinema americano. Tanto esplicita che la classica, sfumata amicizia virile si è trasformata in un lampante amore omosessuale, dove l'atto fisico è mediato per ben tre volte dal rapporto con la stessa donna (Peggy, Carol e Deborah), e dove la dinamica psicologica assegna i tratti della mascolinità positiva a NoodIes (eroismo, purezza, anticonformismo) e quelli della femminilità negativa a Max (isteria, non affidabilità, compromissione). La donna non ha più l'ambiguo ruolo di equilibratore delle tensioni maschili: non riduce l'uomo all'adattamento né, come la Hildy di Cable Hogue, fugge per far fortuna dopo essersi concessa una volta sola. Non si concede mai, in una sorta di abbietta caricatura di Mrs. Miller; abbietta perché è una vincente e perché, a differenza di Mrs. Miller, abbandona la baracca molto prima dell'ineluttabile, tragica conclusione. Non è solo per concomitanza di situazioni e di volti che il dialogo sulla spiaggia tra NoodIes e Deborah ricorda quasi testualmente la notte d'amore tra Monroe Sthar e Kathleen in Gli ultimi fuochi di Kazan. Deborah è un'esplicita rappresentazione della terribile vergine americana di Fitzgerald, “non più la donna maltrattata, che solo con la sofferenza e la morte riesce a evirare chi l'ha tradita, ma la donna che maltratta, simbolo di un'America imperialista anziché coloniale”, come scrive Leslie FiedIer. Come per Fitzgerald, anche per NoodIes il fascino di Deborah è un'illusione, “e la bianca fanciulla, una volta conosciuta da vicino, si rivela una strega bianca, la ragazza d'oro un idolo d'oro. Sulla sua tavolozza bianco e oro compongono un colore sporco; perché la ricchezza non è più innocente, l'America non è più innocente, la ragazza che è l'anima di entrambe è divenuta deleteria e corrotta”. Con in più, rispetto all'universo istintivamente adolescenziale di Fitzgerald, la consapevolezza della propria determinazione e della propria corruzione. Ancora: Fat Moe, amico di second'ordine perché privo di coraggiosa iniziativa, come arriva di corsa, ultimo della fila, a salutare NoodIes bambino che entra in carcere, così in una sorta di rivalutazione dell'amicizia silenziosa, rimane l'indistruttibile baluardo di fedeltà. La ninfomane isterica e aggressiva, alla resa dei conti, è più umana, sentimentale e pulita dell'eroina di ferro. Quelli che proclamano ai quattro venti la propria purezza di spirito, come il sindacalista O'Donnell, si compromettono puntualmente con il potere. Non si tratta qui di rivisitazione, ma di esplicitazione totale delle sfaccettature di un universo mitico. Un'esplicitazione che lavora anche sul terreno propriamente stilistico, attraverso la dilatazione del particolare simbolico e la sottolineatura dei significati “psicologici” dei movimenti di macchina. Ma, mentre gli snervanti preliminari dei duelli nei western racchiudevano precisi intenti simbolici all'interno delle immagini dilatate di oggetti, volti, particolari, qui il simbolo ha ceduto il posto alla presunta verità che sottende. Il sottofondo è risalito in superficie e gli insistiti carrelli in avanti non sottolineano più una maschera rituale, ma l'essenza, la presa di coscienza, l'incontro con se stessi. Troppo spesso: nei primi venti minuti ci sono almeno cinque zoom o carrelli in avanti, in una marcatura di senso che, nell'eccesso, perde di efficacia. Certo, nel film c'è tutta una vita, ma è una vita che ruota (come Leone stesso sottolinea) intorno a un unico momento; tutto il resto rappresenta il percorso (in avanti o indietro) per arrivare a quel momento conclusivo. L'idea di un film costruito come una lunga soggettiva della memoria del protagonista (che è poi la memoria cinematografica di Leone) è senza dubbio la caratteristica più interessante del fìlm. E va rispettato, in questo senso, lo sforzo compositivo di Leone, il suo rifiuto della successione cronologica “realistica” del flashback consecutivo, la ricerca tormentosa di suoni e immagini catalizzatori del flusso della memoria. La prima parte del film, il ricordo cruciale di NoodIes e il suo ritorno, composta come faticosa ricostruzione di un puzzIe in soggettiva, è indubbiamente un pezzo di cinema di grande intensità emotiva ed efficacia narrativa. Gli scarti temporali sono innescati da tre momenti di lancinante puntualità: lo squillo in primo piano del telefono fuori campo, il passaggio del tempo sul volto di NoodIes alla stazione, e, sulle note di “Amapola”, la fuga all'indietro, questa volta negli occhi di NoodIes. Non mancano, anche qui, alcuni eccessi calligrafici: i numerosi carrelli in avanti di cui si è detto e una studiata insistenza sulle reciproche attrazioni degli oggetti su cui sono costruite le dissolvenze incrociate (da lampada a lampione stradale, da fotografia della città a squarcio della città in movimento); ma ugualmente il racconto e le immagini hanno una forte carica fascinatoria. Poi, i tratti della memoria si organizzano e la successione del ricordo procede per blocchi consecutivi, dall'infanzia in avanti, fino al momento cruciale del tradimento. Ancora una volta, al proprio interno, alcuni di questi blocchi sono ineccepibili; pieno di suggestione e di sottili implicazioni il racconto dell'adolescenza; molto teso, nella sua essenzialità da cinema classico, il ritorno di NoodIes dal carcere; dolorosissima la lunga sequenza del corteggiamento e della violenza a Deborah. Ogni volta che si concludono pezzi della vita, la memoria torna all'oggi, alla ricerca di NoodIes della verità sul suo passato. Ma ogni volta il giochetto si fa più macchinoso, anche perché la verità è, cinematograficamente, la più ovvia, anticipata da una quantità di segnali, primo fra tutti l'orologio truffato da Max e NoodIes; e perché lo stesso Noodles, essendo pura creatura di cinema, conosce perfettamente il risultato della sua indagine. C'era una volta in America ha la non insolita caratteristica di vivere per brani separati, mescolati però e collegati da eccessi di ridondanza, ovvietà, frammenti inessenziali. Senza per questo arrivare (come avrebbe potuto, seguendo le divagazioni del ricordo) alla visionarietà . Il kitsch qui, più che frutto di una scelta, come accadeva nei western, sembra casuale, se non, appunto, all'interno dei singoli brani autonomamente conclusi. L'eccesso, allora, rischia di confinarsi esclusivamente all'uso della macchina da presa che, spesso, si “sente” troppo, indugia sull'estetismo, ripete se stessa. C'era una volta in America sta su un ambiguo confine; è contemporaneamente troppo e troppo poco: troppo lungo, sofferto e articolato per essere un fìlm di genere, è anche troppo esile nel tessuto narrativo e troppo “classico” in quello iconografico per arrivare alla rottura dei genere e alla decisa anche se nascosta autorialità, per esempio, del Padrino. È musicato con troppo elegante ridondanza, troppo ben fotografato (con inquadrature spesso volutamente “ardite”), troppo studiato, proponendosi così con insistenza come film d'autore, e denunciando a più riprese la presenza dell'uomo che sta dietro la macchina da presa, secondo un tratto tipico dei cineasti europei. Un tratto che troppo spesso (e non solo nel caso di Leone) si risolve, soprattutto in presenza di ricchissimi budget americani, in puro estetismo. Rimangono l'onestà con cui Leone analizza l'ambiguità del proprio rapporto con l'immaginario e il cinema americani, un'interpretazione straordinaria di Robert De Niro, controllato, silenzioso, capace di recitare solo con gli occhi, e alcuni momenti di intensità angosciante. L'improvviso ralenti sottolineato dalla musica con cui i ragazzi si disperdono prima della sparatoria, un puro attimo di western metropolitano, e quel lungo, esasperante battito del cucchiaino contro la tazzina, durante il quale NoodIes dimostra la propria istintiva superiorità morale e carismatica a Max, fanno un po' rimpiangere il film che avrebbe potuto essere. C'era una volta in America avrebbe potuto essere un film delirante e barocco o un'elegante e lucida metafora della violenza, purché Leone avesse selezionato con più rigore i propri materiali mitici ed espressivi, sacrificandone qualcuno alla coerenza interna del film Un'immagine finale forte è indimenticabile: tre, in successione, sono esili. NoodIes guarda la macchina delle immondizie che si allontana. NoodIes guarda passare le automobili con i giovani schiamazzanti a bordo. NoodIes, in flashback, sdraiato nella fumeria d'oppio, guarda in macchina e sorride; sino alla fine, il sovraccarico priva le immagini della loro forza.

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