Questo attore è uno e trino, Anzi Binasco. Teatro, cinema, televisione. interprete, regista, maestro. Un film e una fiction in uscita, due spettacoli in tournée. Il segreto di tanta attività? L'irrequietezza, l'unica molla a spingerti sul palcoscenico. O sul set
È un attore carico di premi e successi che passa dal teatro al cinema e ora anche alla tv, dalle platee borghesi a quelle sperimentali, dal palcoscenico alla poltrona da regista. E già per questo, nelle sabbie immobili dello spettacolo italiano Valerio Binasco da Novi Ligure, 42 anni, merita attenzione. Ha il nome in cartellone per due spettacoli in tournée: il Tartufo di Carlo Cecchi, con il title role, e Noccioline, testo rivelazione scritta all'indomani dei fatti di Genova dall'allora giovanissimo Fausto Paravidino, di cui firma la messinscena per l'Eliseo di Roma, dove è regista ospite per tre anni. Ma a Roma lo vuole anche lo Stabile: a maggio, al Teatro India sarà regista e interprete di E la notte canta di Jon Fosse, l'autore norvegese contemporaneo più rappresentato in patria dopo Ibsen. Per RaiFiction ha recitato in Il sangue dei vinti di Michele Soavi, tratto dal discusso libro di Giampaolo Pansa sulle violenze partigiane dopo la Liberazione, che vedremo a primavera. Con Ferzan Ozpetek ha appena finito Un giorno perfetto, dal romanzo di Melania Mazzucco. Poi sarà la volta di Noi credevamo, le memorie risorgimentali di Anna Banti che, dopo averle riscritte con Giancarlo De Cataldo, Mario Martone porta al cinema.
Gli attori, se gli va male fanno la fame, rata se gli va bene rischiano dl scoppiare. Lei come fa a tenere tutto insieme?
È strano, ma un attore che aspira a qualche grandezza deve salvaguardare la sua parte sporca, che non è fatta di omicidi o banali lussurie: è solo paura, rabbia e sessualità molto inquieta. Quando il pubblico comincia ad amarti e la critica smette di stroncarti, questa parte scura si metterebbe a riposa, ma non devi farla riposare mai, perché è indispensabile. È questa sporcizia a spingerti sul palcoscenico: la trasformi involontariamente in quel gesto pieno di grazia e fragilità che è il recitare. L'equilibrio fra sporcizia, grazia e fragilità è la dote dell'attore: se una prevale, la bravura diventa abilità, menzogna».
Ma non stressa passare lo stesso giorno dal set alla scena?
«Per me è più complicato il contrario, perché sono più imbranato nella recitazione cinematografica. Il teatro non è tanto diverso dal cinema, ma il cinema lo è, eccome. Scatta la magia fra te, la percezione di te e quella dell'obiettivo: a volte la macchina da presa può leggerti l'anima, e non sei sempre in grado di controllarti anche l'anima».
Ha messo in scena i testi arditi di Spiro Scimone come il Tï ho sposato per allegria di Natalia Ginzburg, ha portato alla platea off dell'India un teatro da camera come Cara professoressa, con tutti i mobili al posto giusto: fra tanti muri caduti crolla pure quello che separa ricerca e tradizione?
«Non è conformismo, anzi mi sembra più conformista continuare a urlare e rotolarsi per terra come si fa in certi spettacoli. Le avanguardie, ormai con la barba bianca e lunghissima, hanno sdoganato l'urlo mezzo secolo dopo Munch, ma oggi, salvo rare eccezioni, riproporre grida e rotolamenti in scena significa citare il teatro, non la vita: quanta gente vediamo comportarsi cosi nella realtà?».
Un ritorno all'ordine, quindi.
«No, è il tentativo di trovare una via vitale in un teatro di tradizione. Cercare di raccontare al pubblico una storia lavorando su una recitazione che abbia un rapporto non solo conflittuale con la verosimiglianza, come quello dell'avanguardia. Ho accettato l'invito dell'Eliseo, il teatro dove Orson Welles veniva a vedere Eduardo, anche per questo. Mi piacerebbe che il nostro teatro assomigliasse un po' di più a quello inglese, dove usare il sipario non è necessariamente borghese».
Ora tocca parlare di trama, l'oggetto teatrale più maltrattato dal dopoguerra.
«Se ne può dire tutto il male possibile, ma mi pare un peccato sacrificarla. È una convenzione, non ci crede più nessuno, tanti anni di avanguardia l'hanno svergognata, ma io me ne frego e penso sia un veicolo necessario e semplice per arrivare al pubblico. Quando feci con Cecchi Finale dipartita di Beckett, l'esperienza più bella della mia vita, Carlo non si staccò mai dalla trama: si fosse occupato solo del beckettismo, della ricerca formale, non avrebbe raccontato la storia».
Il suo Tartufo rimane un vero fetente, un ipocrita bigotto, ma sembra che lei voglia far capire che è diventato un impostore perché da bambino se l'è passata malissimo.
«Amletino, Tartufino... Me lo dicono un po'troppo spesso. Non ci sarà mica un problema di Edipo?». Questo è il vostro secondo anno di tournée: quanto cambia uno spettacolo dalla prima alla alla centesima replica? «Se lo spettacolo è bello cambia molto perché, per mistero e fortuna, contiene le regole del gioco che consentono di portare avanti il gioco, di spiazzarsi e spiazzare».
E dopo quanto tempo uno spettacolo è stanco?
«È un ciclo, si stanca e poi si riprende. Fisiologicamente, lo stato di grazia della compagnia si raggiunge ogni dieci giorni, quello di ogni singolo attore può essere più frequente, diciamo ogni cinque. Ma uno spettacolo è sano e vivo quando si predispone ad accogliere lo stato di grazia, non a replicarlo».
Lei ha cominciato a insegnare recitazione da giovanissimo: vocazione pedagogica?
«No, empatia con il professore: se un giovane attore era in panne non mi identificavo in lui, ma nel professore. Che avrebbe fatto per aiutarlo? Anche questo sarà Edipo?».
Vabbè, parliamo di suo padre.
«Era il medico del paese, sembrava Gregory Peck, bello, sensibile, introverso: mi terrorizzava. Poi, a sedici anni, mi arrestarono per delle scritte sui muri e i carabinieri gli mostrarono unbombadicendocheeramia. Lui si mise a piangere e mi abbracciò fortissimo. Gli dissi che la bomba non era mia, gli chiesi se mi credeva. E lui rispose di si».
Da Il Venerdì di Repubblica, 18 gennaio 2008