RAINER WERNER FASSBINDER
Voglio raccontare come è iniziato tutto, di quando ci siamo conosciuti, dei primi lavori realizzati insieme, della situazione di allora. L'essenziale, in fin dei conti, lo si potrebbe dedurre anche dall'oggi, con le dovute ma niente affatto spropositate differenze, dal nostro rapporto, dalla nostra collaborazione attuale, anche rispetto ai tentativi più o meno riusciti da parte di un certo ambiente ufficioso di ridurci a due cifre fungibili, a merce di scambio.
Ci siamo conosciuti in una delle fin troppo numerose scuole di recitazione a Monaco, che hanno per lo più come unico scopo quello di fomentare e poi convertire in moneta sonante l'enorme passione che spinge tanti giovani verso quel palcoscenico che rappresenta il mondo. Le mie motivazioni, e quelle di Hanna Schygulla, nel frequentare la scuola erano però parecchio divergenti da quelle dei nostri colleghi. Non erano le nostre ragioni il palcoscenico, il teatro, diventare attori a ogni costo, questo insegnamento teatrale (sproporzionato nei costi rispetto alle disponibilità dei giovani) che consisteva in esercizi di respirazione, di dizione, nello studio dei ruoli e in una serata di esercitazione, una volta la settimana, ogni mercoledì, in cui tutti gli allievi si radunavano per mettere assieme qualcosa, una sorta di libera improvvisazione su un tema obbligato.
Soprattutto quelle serate rappresentavano per un verso lunghe ore di disperazione, ma anche di un sadismo della peggior specie. Non mi è capitato spesso di assistere in seguito a degli esseri umani che si deridono e si disprezzano così spietatamente. Il solo fatto che gli insegnanti non riuscissero - se già il disinteresse non aveva fatto piazza pulita della loro sensibilità - a trasmettere agli allievi la cosa più evidente, cioè il portar rispetto alla dignità umana dell'altro, rende già di per sé palese la loro incapacità a porsi come indispensabile modello di riferimento di tanti giovani. Ciascuno avrebbe potuto e dovuto trame le dovute conseguenze, e mostrare più risolutezza. Ma ovviamente tutti avevano paura di farlo.
Il motivo per cui restai in quella scuola è presto detto. Fin dal primo momento in cui pensai seriamente al mio futuro, avevo deciso di fare del cinema.
Al tempo non esistevano ancora le scuole superiori di cinematografia, credevo di non essere adatto a cominciare come assistente regista, perché la volta che provai, ogni posizione, ogni movimento della macchina da presa, ogni istruzione di regia che avevo sotto gli occhi mi sembrava semplicemente ridicola e sbagliata; e avevo anche smesso di immischiarmi, di dire la mia, dopo che alcuni miei timidi tentativi erano stati stroncati come inaccettabile disturbo alla lavorazione. Poi mi ero occupato un po' del suono, ho imparato a usare una moviola, aiutavo i trovarobe e partecipavo al lavoro di scenografia, ma per imparare a fare dei film reputavo indispensabile guardare sistematicamente tre o quattro film al giorno.
A un certo punto era corsa voce che nel giro di un paio d'anni avrebbero aperto a Berlino una scuola superiore di cinema. In ogni caso si diceva anche che per potervi accedere bisognava disporre di un vero diploma, di qualsiasi scuola fosse.
Mancandomi altre idee, mi ero deciso a frequentare quella scuola di recitazione e considerati i costi non indifferenti della frequenza, si capisce che non fecero storie per prendermi.
Hanna Schygulla dal canto suo studiava germanistica e, se non ricordo male, anche inglese e francese. Voleva diventare insegnante. Ma a un certo punto aveva cominciato con l'annoiarsi, la sua esistenza le sembrava troppo piatta, preordinata, triste, angusta, troppo poco libera. Allora, coi genitori assolutamente contrari, si iscrisse di nascosto alla scuola di recitazione, per chiarirsi meglio le idee su di sé e sui propri desideri. Scelse quella scuola come se andasse da uno psicanalista. Ovviamente non impiegò molto tempo per accorgersi della truffa, era molto triste e delusa e non durò un anno che se ne andò. Curiosamente Hanna Schygulla e io, benché si fossero ben presto accorti che eravamo due tipi non proprio docili, due outsider estremamente critici, eravamo considerati i più dotati della scuola, due allievi difficili, ma anche provvisti di un talento promettente, vuoi un po' fuori della norma, insomma decisamente inquietante. Suonerà strano, ma visto retrospettivamente è di una logica semplicissima. Era ovvio che proprio gli studenti che non puntavano a diventare attori di teatro finivano per essere i più interessati, quindi anche i più interessanti. Noi difatti, Hanna Schygulla e io, potevamo concentrare tutta la nostra attenzione sul comportamento dei nostri compagni e degli insegnanti, dato che non eravamo costretti a sottostare a quella tutela come gli altri, che erano ormai quasi privi di una loro volontà, ridotti al rango di ottusi esecutori con un sentimentalismo da patologia.
Dopo le 'esercitazioni' del mercoldì sera, gli studenti andavano a bere un paio di bicchieri di vino in qualche locale a buon mercato. Argomento costante delle conversazioni erano le speranze di una scrittura, i desideri e le ambizioni di una carriera, ma anche le singole paure, le frustrazioni e le fantasie risvegliate che evocavano non pochi pensieri di suicidio.
Hanna Schygulla e io non aprivamo quasi bocca, stavamo soprattutto ad ascoltare quelli che parlavano, e cercavamo anche, credo entrambi, di spiegarci ciò che si diceva. In qualche rara serata parlammo anche noi. Lei della letteratura e della vita. Io del cinema e della vita. Gli altri però non mostravano quasi il minimo interesse alle nostre parole.
Durante una di quelle serate, improvvisamente, da un secondo all'altro, ebbi ben chiaro in testa, come colpito da un fulmine, che la Schygulla sarebbe diventata la star dei miei film, e che io avrei fatto il regista; non avevo più dubbi, magari sarei diventato una pietra miliare della cinematografia, forse addirittura una sorta di