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Cédric Klapisch, il piacere di voltarsi a guardare indietro

Il regista francese racconta il suo primo film in selezione ufficiale a Cannes, I colori del tempo. Dal 13 novembre al cinema.
di Marianna Cappi

I colori del tempo

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Cédric Klapisch (64 anni) 4 settembre 1961, Neully-sur-Seine (Francia) - Vergine. Regista del film I colori del tempo. Al cinema da giovedì 13 novembre 2025.
venerdì 7 novembre 2025 - Incontri

Nel suo primo film in selezione ufficiale a Cannes, I Colori del Tempo (in originale: La venue de l’avenir), Cédric Klapisch firma un omaggio alla Parigi di ieri e di oggi, immaginando un gruppo di sconosciuti contemporanei legati dalla comune discendenza da un’unica donna, Adèle Meunier, vissuta al tempo dell’Impressionismo. Frugando tra le  vecchie foto, le lettere e i dipinti, quattro degli eredi ricostruiscono la sua storia e i suoi amori e scoprono di possedere un passato incredibile. 

Il film pone a confronto la Parigi della Belle Epoque e la Parigi contemporanea. Come ha lavorato visivamente e narrativamente a questi due piani?

È stato questo il punto di partenza del film: la constatazione che Parigi oggi è quasi identica a com’era nel diciannovesimo secolo. Ci sono delle inquadrature in cui passo da un punto della città, nel passato, allo stesso punto oggi e non è cambiato niente, l’immagine è la stessa. È vero, ci sono i semafori, le strisce pedonali, le insegne luminose dei negozi, ma se guardiamo all’altezza del primo piano dei palazzi, tutto è esattamente com’era nell’Ottocento. È questo che mi interessava esplorare. Dopodiché, per costruire bene questo confronto, è stato fatto un lavoro di documentazione enorme. Io stesso in fase di sceneggiatura ho dedicato molto tempo a guardare le foto dell’epoca, perché nel film c’è proprio la volontà di mostrare cos’era Montmartre, cos’era la Parigi haussmanniana, la vecchia Parigi, insomma. Ci tenevo ad essere preciso nella ricostruzione.

Il più giovane degli eredi che visita la casa di Adèle, Seb, trova nel passato il coraggio per adottare un sé più autentico nel presente. Il cinema e la letteratura trattano spesso della trasmissione intergenerazionale dei traumi, qui invece si parla di un’iniezione di coraggio, che viene da lontano. È così?

Sì. Il personaggio di Seb è legato alla modernità, vediamo che ha Instangram, che lavora per YouTube, usa i social, e le sue creazioni sono legate a questi strumenti. All’inizio non ha nessuna voglia di andare nella vecchia casa di famiglia, lo fa solo perché suo nonno lo spinge a farlo, ma poi scopre qualcosa. Scopre delle vecchie foto, che lo interessano, comincia a domandarsi chi erano le persone che avevano abitato in quella casa abbandonata, come vivevano, e alla fine si trova a dire: “Ho sempre vissuto rivolto verso futuro, ma ora mi rendo conto che mi ha fatto bene guardare al passato.” Questo dice il film: esiste un piacere nel riguardare il passato. Uno degli oggetti che mi hanno ispirato sono quegli opuscoli, che si trovano per esempio a Roma o a Pompei, in cui è possibile vedere le rovine romane come sono oggi e lo stesso luogo al tempo dell’antica Roma. Il film di fatto fa lo stesso: cerca di immaginare come si viveva in un’altra epoca e di affermare che non c’è ragione alcuna di annoiarsi guardando indietro. Quando si pensa ai musei si pensa a posti polverosi e faticosi, ma in realtà guardare le vecchie foto di famiglia o le tracce di un mondo scomparso, può essere molto piacevole. Il film è una pubblicità del tempo antico.


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Nei suoi film c’è spesso, fin dalla “trilogia dell’Erasmus”, una coabitazione forzata tra personaggi che non si conoscono ma sono obbligati per qualche ragione a stare insieme e a conoscersi, generando una serie di elementi comici e non solo. Come mai è così legato a questo espediente narrativo?

Ho fatto quindici lungometraggi e lavorato a due serie televisive e mi rendo conto che ciò che hanno in comune, e che c’è in ogni mio lavoro, è il rapporto tra un individuo e un gruppo, e il racconto di come si forma un gruppo. Può trattarsi di amici, di una famiglia, di coinquilini a Barcellona, o di cugini che non si conoscono tra loro, come in questo caso. Mi piace questo tema perché pone la questione della collettività. Nel mio primo lungometraggio (Rien du tout, 1991) si parlava di un’azienda in crisi, in cui mancava proprio lo spirito di gruppo, per cui andava creato, oppure in Deux Moi si parla di una coppia, ma è già un piccolo gruppo, e la domanda alla base del film è la stessa: come arrivano lui e lei a mettersi insieme? È una domanda che mi interessa molto.

Oggi i giovani guardano indietro più o meno di altre generazioni? Qual è il senso di guardare al passato?

Quando si è artisti si è obbligati a guardare al passato. Se si è musicisti non si può non conoscere Bach o Mozart e i Beatles, il passato antico e quello più recente. Ci si nutre di questo. All’epoca di Leonardo Da Vinci, i pittori francesi veniva in Italia per vedere i dipinti del Rinascimento e le statue dell’epoca romana. Chi vuole essere pittore o fotografo, oggi, andrà per musei, a vedere mostre, per conoscere il passato. E lo stesso vale per i politici: sono obbligati a conoscere chi e cosa è venuto prima di loro. Oggi non è più tanto naturale, perché siamo chiamati a essere sempre “nel momento”, per cui dobbiamo fare uno sforzo per interessarci al passato. Ma ho comunque l’impressione che i ragazzi di oggi siano consapevoli dell’interesse che risiede nel passato, solo che devono sforzarsi di fare questa ricerca.

Come regista ha guardato, per questo film, alla storia del cinema? 

Naturalmente, per un regista vale lo stesso discorso. Da studente ho studiato il cinema del passato e il cinema italiano in particolare ha nutrito molti dei miei film. Sono uno dei fondatori di un sito francese che si chiama LaCinetek, che ha appena festeggiato i dieci anni di attività, e per il quale chiediamo a tutti i grandi registi, da Nanni Moretti a Martin Scorsese, di dirci quali sono i cinquanta film della loro vita. I film che sono visibili on demand su questa piattaforma sono dunque quelli selezionati dai registi stessi. Lì si vede a che punto tutti i cineasti del mondo, dalla Corea agli Stati Uniti, uomini e donne, siano influenzati dai film che hanno amato e hanno cercato di eguagliare. È impossibile fare cinema oggi se non si ha una conoscenza di quello che è stato il cinema del passato.


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Ne I colori del tempo si parla di un’epoca in cui la pittura e la fotografia si preparavano ad affrontare l’avvento del cinematografo. Oggi si profila all’orizzonte l’Intelligenza Artificiale. Pensa che verrà integrata nel sistema delle arti o prenderà il sopravvento?

Penso che non sappiamo ancora cosa succederà. Vediamo che è all’opera uno strumento gigantesco, ma cosa sarà in grado di creare non lo sappiamo affatto. Ho accettato per il secondo anno consecutivo di far parte della giuria di un festival che si occupa di film realizzati con l’I.A. perché sono curioso di capire cosa stia succedendo in questo campo. Di sicuro nel film parlo di questo quando prendo un po’ in giro il giovane fotografo dell’Ottocento che dice che, dal momento che “ora” c’è la fotografia, la pittura è destinata a scomparire. Sappiamo bene non è andata così e la pittura continua a esistere. Credo fermamente che non si proceda per sostituzioni ma per sovrapposizioni. L’avvento del sintetizzatore non ha fermato i violini e Morricone, per esempio, ha mescolato la musica sinfonica e quella elettronica. Credo che la cultura sia fatta appunto di combinazioni, non di sostituzioni. 

“Oggi siamo tutti i fotografi e possiamo scattare tutti una bella foto”, dice Seb. È proprio così?

Niente rimpiazza la cultura. Tutti abbiamo gli strumenti necessari per fotografare a disposizione, ma pochi sono bravi fotografi. La differenza tra un bravo fotografo e chiunque altro sta nel fatto che il primo riflette sul lavoro, ne fa una pratica quotidiana, si pone delle domande. Dunque è una buona cosa che ci sia stata questa democratizzazione, ma, così come tutti possediamo delle penne ma non siamo tutti scrittori, il talento e l’arte richiedono lavoro, cultura. Si vede bene nella musica: oggi chiunque può fare musica facilmente, magari utilizzando l’intelligenza artificiale, ma poi quando arriva Billie Eilish è chiaro a tutti che lei è un’artista. Si distingue in mezzo a miliardi di gente che fa musica. E sarà sempre così. 

Parliamo del casting. Come ha scelto Suzanne Lindon e gli altri interpreti principali? Li aveva già in mente in fase di scrittura?

In questo film tutto si è deciso al momento del casting e non prima. Altre volte scrivendo penso a un attore, ma stavolta avevo in mente solo due persone: Zinedine Soualem, che fa il professore di francese, e Cécile De France, con la quale ho già lavorato spesso. Non avevo idea di chi avrebbe interpretato le altre parti. Volevo degli attori giovani, per il fotografo e il pittore dell’Ottocento, ma non sapevo chi. Per il ruolo che è andato a Suzanne Lindon avevo visto una trentina di giovani attrici, sui vent’anni, ma lei, che ne aveva ventitré al momento del provino, è stata la migliore in assoluto. E ha contato anche il rapporto che è nato tra di loro. Stranamente sono venuti tutti lo stesso giorno: Paul Kircher, Vassili Schneider e Suzanne Lindon, e ho visto che ognuno di loro era forte di suo, ma soprattutto, pur non conoscendosi, sono usciti insieme dalla sala del casting, sono andati a prendere un caffè e sono diventati amici, ancora adesso si vedono molto spesso. E durante il provino si vedeva già che funzionavano bene insieme e che bisognava prendere tutti e tre. 

L’esperienza del museo ha un ruolo centrale nel film. Anche nella sua vita è così?

Tutto parte dal piacere. Spesso quando si va a scuola e si è obbligati ad andare a un museo o a una mostra, non si sperimenta alcun piacere. Ma adesso, anche per il mio lavoro, il piacere che traggo dal guardare i dipinti impressionisti è enorme. È uno dei momenti più importanti nella storia della pittura, dunque andare al museo e guardare i quadri per me non è altro che un piacere. Comunicarlo ai giovani non è facile, lo so, ma per me davvero è così: se vengo a sapere che c’è un quadro di Claude Monet o di Auguste Renoir da qualche parte, lo voglio vedere. E non solo gli impressionisti. Sono stato a Venezia qualcosa come venti volte e sono sempre andato nella zona dei Frari degli Schiavoni, dove so che c’è una piccola scuola con delle pitture di Carpaccio. Se vado a Venezia, voglio andare lì e vedere quelle pitture, tutte le volte, perché mi danno piacere.


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