
Michele Mellara e Alessandro Rossi realizzano un film nostalgico ma essenziale. Al cinema da oggi al 12 giugno.
di Roberto Manassero
Enrico Berlinguer, segretario del Partico Comunista Italiano, morì a Padova quarant’anni fa, l’11 giugno 1984, quattro giorni dopo essere stato colpito da un ictus durante un comizio per le elezioni europee. Al suo funerale a Roma, il 13 giugno successivo, partecipò un milione di persone provenienti da tutta Italia, un oceano di bandiere rosse e di fiori dello stesso colore che dimostrava un amore e un’ammirazione ben oltre l’appartenenza politica dei singoli partecipanti.
All’epoca diversi registi iscritti o vicini al PCI (Scola, Bertolucci, Maselli, Lizzani, Vivarelli, Pontecorvo) girarono un film sui funerali del leader scomparso, L’addio a Enrico Berlinguer, ed è proprio da quell’opera senza firma che Michele Mellara e Alessandro Rossi sono partiti per realizzare il loro Arrivederci Berlinguer!, aggiungendovi anche frammenti di comizi e interventi pubblici provenienti dall’Archivio audiovisivo del movimento operaio e democratico.
Ne è nato un film nostalgico ma essenziale, breve e senza commento, che utilizzando unicamente filmati di repertorio e usando le musiche di Massimo Zamboni dei CCCP come sola forma di annotazione critica (minimale, evocativo, onirico), restituisce in appena 50’ il legame fortissimo che univa il segretario comunista ai suoi elettori e la forza forza di un movimento che all’epoca era ancora protagonista nella società italiana.
Fa una certa impressione, guardando le immagini del corteo funebre e la commozione delle persone, sapere che da lì ad appena sette anni il PCI sarebbe morto, travolto dal crollo del Muro di Berlino e dalla fine dei comunismi nell’Europa orientale. Nelle parole, nei volti, nei vestiti, nelle lacrime di uomini, donne, giovani, anziani e anche bambini di allora, si coglie ancora la bellezza e l’importanza di una storia lunga decenni. La storia dei braccianti pugliesi che parlano di Berlinguer come di un padre, dell’anziana coppia che lo chiama “fratello”, dell’uomo con gli occhi lucidi che ha lasciato a casa la moglie ancora più disperata, dei lavoratori venuti da Salerno con un treno speciale che ha impiegato sette ore di viaggio per arrivare a Roma, dei componenti della sezione siciliana dedicata alla vittima di mafia Pio La Torre, del meccanico che propose al segretario comunista di non farsi pagare una riparazione, perché dopo tanti anni di lavoro per quelli come lui era normale che accettasse almeno un regalo…
La commozione del momento fu la stessa che da lì a poco alle elezioni europee avrebbe portato il PCI al risultato numericamente più significativo della sua storia, il 33,3% contro il 33% della DC, ma con il senno di poi può anche essere visto come il sentimento collettivo di un malinconico canto del cigno. In certi momenti del film (come quando si vedono alcuni partecipanti al corteo con abiti già firmati e occhiali da sole) si coglie infatti l’altro volto dell’Italia dell’epoca, quella degli anni '80 edonisti e indifferenti, che in un modo o nell’altro avrebbero portato anche la politica a farsi più distante dalla realtà, abbandonando la difesa del lavoro e dei lavoratori («Lavorate tutti» è una delle ultime frasi dette da Berlinguer prima del malore).
A stare fuori dal tempo e a occupare lo spazio del mito è invece la celeberrima scena di Roberto Benigni che prende in braccio un esile e divertito Berlinguer, che i due registi inseriscono verso la fine del film (era il 1983, a Roma, durante una manifestazione per la pace indetta dalla FGIC) e trasformano nella chiosa ideale: il più amato di tutti, come all’epoca fu definito il segretario, e il più divertente.