L'ultima volta che siamo stati bambini

Il Ghetto e la guerra dei piccoli nell'esordio del regista Bisio

Il film della settimana L'ultima volta che siamo stati bambini Sono passati ottanta anni dal 16 ottobre 1943, uno dei giorni più atroci nella storia della nostra città: il nazista Kappler, dopo aver ricevuto 50 chili d'oro dalla comunità ebraica in cambio della promessa della salvezza, ordinò il rastrellamento nel ghetto e in altri punti di Roma, catturò 1259 ebrei e li costrinse a salire su un treno che dalla stazione Tiburtina li portò al campo di sterminio di Aushwitz. Solo in 16 tornarono a casa alla fine della guerra, gli altri furono tutti uccisi. Giacomo Debenedetti, il grande critico letterario, dedicò a questa tragedia un breve libro che andrebbe letto in ogni scuola: " 16 ottobre 1943", appunto, la cronaca fedele e atroce di quel giorno spaventoso. Ora Claudio Bisio ha tratto dal romanzo " L'ultima volta che siamo stati bambini" di Fabio Bartolomei un film che prova a raccontare in modo obliquo e personale questa pagina nerissima. Quattro ragazzini romani sono legati da "un patto di sputo", un'amicizia assoluta che niente e nessuno può infrangere. Italo è figlio di un militare fascistissimo e crede ciecamente nel duce, Cosimo è un vivace monello, Vanda è un'orfana che vive in un istituto di suore e Roberto è un ragazzino ebreo. E quando Roberto scompare, deportato dai nazisti, i suoi amici partono a piedi da Roma, seguendo i binari del treno, convinti di poterlo liberare. Dopo di loro partono anche il fratello di Italo, soldato fascista ferito in guerra, e una giovane suora che ama teneramente la sua piccola protetta. È una storia picaresca, fatta di minime e grandi avventure, un viaggio spinto dalla speranza e dalle illusioni. Non tutto funziona perfettamente, non sempre un grande giocatore diventa un grande allenatore, e così resta l'impressione che Bisio, straordinario mattatore in televisione, sul palcoscenico, attore in tanti film di successo, abbia qualche incertezza nel nuovo ruolo di regista. Ripetiamo sempre che tutti i brasiliani sono giocolieri del pallone, che tutti i turchi fumano di continuo, che ogni africano ha il ritmo nel sangue e che tutti i bambini potenzialmente sono fantastici attori. Ma poi, si sa, non tutti i turchi fumano da morire e non tutti i bambini sono poi così disinvolti davanti una macchina da presa. E così si ha l'impressione di una recita scolastica, in cui tutti si impegnano al massimo, fotografati e applauditi da amici e parenti, anche se il risultato è traballante. E anche la regia non riesce a dare fluidità a questo buffo e tremendo viaggio, le scenette si susseguono, ma faticano a collegarsi in una storia davvero avvincente. Certo, il finale è un colpo al cuore, una sorpresa inaspettata e dolorosa, e il film chiude trasmettendo un'emozione forte, ma nell'insieme mi sembra un'occasione sprecata, una bella storia un po' balbettata. Si capisce anche che tanti soldi non c'erano, e così la cornice storica, la gigantesca catastrofe della guerra, si riduce a quattro soldatini e due comparse sdraiate per terra a fare i morti ammazzati. Insomma, qualche incertezza, ma forse è un film che può colpire un pubblico giovane, ricordando a tanti ragazzini l'orrore di quella deportazione: 250 bambini spinti nel treno della morte, e nessuno di loro tornò vivo a Roma.
Da La Repubblica, 22 ottobre 2023


di Marco Lodoli, 22 ottobre 2023