Wenders ha raccontato la musica cubana, il Texas, i vicoli colorati e disordinati di Lisbona, il Giappone. Ora incontra Kiefer. Anselm, al cinema. Di Pino Farinotti.
di Pino Farinotti
Prima di tutto Wim Wenders. Chi mi conosce sa della mia predilezione. E’ un tedesco, carico di lauree honoris causa, che ha esplorato tutte le culture dominanti.
Ha raccontato la musica cubana, il Texas, i vicoli colorati e disordinati di Lisbona, il Giappone, si è accostato a Antonioni. E tanto altro del mondo. E’ nato nel 1945, ha dunque atteso la fine del nazismo e lo ha relegato nello strato più profondo del suo recondito.
Ma adesso ha incontrato Anselm Kiefer, suo coetaneo, che la vicenda tedesca di quel periodo, se l’ha relegata, poi non è riuscito trattenerla là in fondo.
Il nazismo. È come due grumi che gli si sono posti a pochi millimetri dal cuore e da un lobo del cervello e che a volte si allargano e toccano quelle pareti, e diventano il tema, la materia, la storia, l’incubo, che è risalito nella sua coscienza e nella sua memoria ed è arrivato alla sua sensibilità, al suo talento, alla sua regione e alla voglia di raccontare ponendosi un preciso dovere, soffrire fino in fondo.
Credo che Wenders si sia dedicato a Kiefer perché gli ha riconosciuto un coraggio maggiore del suo.
Kiefer assume in assoluto la pazzzia (tre zeta, come le tre esse del tesssoro di Tolkien), tedesca, che può significare dominio dell’arte e della cultura europea –pensiamo alla rivoluzione di Weimar, che tutto ha stravolto - ma può anche significare... Auschwitz.
E l’artista lo sa bene e non se lo nasconde e non lo nasconde. Dice: “Io sono nato nel’45, come posso sapere che se fossi vissuto allora non sarei stato nazista”. E così fa un suo gioco provocatorio e temerario, dipinge quadri dove appare col braccio teso nel saluto nazista nei più evocativi scenari d’Europa, il Colosseo, la porta di Brandeburgo, Notre Dame. Erano gli anni sessanta e lui non era ancora il grande artista con la franchigia di essere immune da tutto. Era giovane, non ancora affermato, ci voleva coraggio, tanto, e così non gli mancò l’accusa di essere neonazista. Intervistato in quel periodo disse qualcosa che ci riguarda in questi giorni: “Dichiararsi antifascista adesso è facile, è una mancanza di rispetto per chi si dichiarava allora, e rischiava la vita”.
Ma ci fu una parte di critica tedesca che si sforzò di andare oltre e capirlo. Ne rilevò il coraggio di mettere il dito nella piaga di quella che era stata l’immane tragedia nazista.
Nel film non possono mancare citazioni di personaggi ai quali l’artista si sente apparentato per attitudine e sentimento, e non è mai un sentimento felice. Trova spazio uno dei suoi maestri Beuys. Soprattutto Paul Celan, il poeta ebreo scampato allo sterminio, che divenne il cuore della sua poesia disperata, e dal quale non si riprese mai. Morì suicida a cinquant’anni. Kiefer ne legge alcuni versi.
L’arte. Wenders riprende l’artista nel suo studio, praticamente una città con spazi immensi dove può lavorare sulle sue opere colossali. Tele, se possiamo chiamarle così di centinaia di metri quadrati. E poi dà corpo a dei monumenti che escono dalle pareti, e sono sempre un segnale, potentissimo, di dolore. Lo assistono collaboratori che dirigono sulle opere fuochi o masse di materia.
Nelle raffigurazioni non scovi quasi mai figure umane. Sono distese infinite, dove comanda il buio, il gelo, qualche albero nero e senza foglie. E dove si intuisce, sospeso, l’eterno male umano, contro il quale non hai difesa, sempre che ti voglia difendere. Sempre che tu voglia contrastare la sofferenza. E se vuoi estendere la visione puoi reperire anche segnali di inferno.
Emerge, nel racconto di Wenders, la passione di Kiefer per la tradizione culturale tedesca, soprattutto per la mitologia teutonica, coi suoi eroi e i suoi miti, Parsifal e i Nibelunghi. Dunque, ancora, la Germania “totale”.
Kiefer è padrone assoluto della materia, quella “povera”: piombo, catrame, sabbia, paglia, inchiostro.
L’artista si è evoluto decennio dopo decennio. Importante è il 1980, quando la Biennale di Venezia gli dedica una mostra. Il nome si è rivelato e il segnale arriva agli americani che gli dedicano mostre a Chicago, Filadelfia, Los Angeles New York. La critica Usa, che non teme gli assoluti, lo definisce “il più grande artista contemporaneo”.
Wenders concede a Kiefer di esprimersi come narratore, di sé stesso, con pronunciamenti di cultura e filosofia figlie delle sue opere. Ma è legittimo dire che il talento del filosofo non è lo stesso dell’artista.
Il film si chiude con la strepitosa installazione di nello spazio più importante del Palazzo Ducale di Venezia. L’artista rappresenta, secondo la sua vocazione “gigantesca” la storia della città. Se ti trovi in quello spazio e ti guardi intorno ti ritrovi … in apnea.