“Certe cose sono sconvolgenti e inaccettabili alla comune coscienza. (…) Certe cose atroci architettate o comunque volute dal Potere (quello reale non quello sia pur fittiziamente democratico) sono comunissime nella storia: dico comunissime: eppure alla comune coscienza paiono sempre eccezionali e incredibili.” Pier Paolo Pasolini - Il Caos (1969)
Ci sono storie a cui è difficile credere. Appaiono inverosimili, incompatibili con il periodo storico in cui sono avvenute. Eppure sono successe realmente, e non tanti secoli fa, appena qualche decennio.
Una di queste è quella di Aldo ed Ettore. Innamorati e felici nell’Italia degli anni Sessanta. Incoscienti e liberi. Per questo perseguitati dal moralismo bigotto e ipocrita di una società, seppur nel pieno del boom economico e agli albori della contestazione del ’68, ancora fortemente ancorata alla tradizione clerico-fascista. Martirizzati solo per la loro omosessualità. Ettore Tagliaferri con la reclusione in manicomio e le “cure” forzate a base di elettroshock e psicofarmaci. Aldo Braibanti per via giudiziaria, condannato a nove anni per plagio del giovane compagno.
Fu l’unica condanna definitiva per il reato di plagio, dichiarato incostituzionale nel 1981, istituito in epoca fascista dal codice Rocco, quando l’omosessualità, in un’Italia virile e machista, non si poteva nemmeno nominare.
La loro storia inizia a metà degli anni Sessanta, nella campagna piacentina. Le attività culturali organizzate dalla comunità stabilita nel podere chiamato la Torre, di cui Aldo Braibanti è uno degli animatori, aggregano molti ragazzi, tra loro i fratelli Tagliaferri. Ettore è subito affascinato dal carisma di Braibanti, una figura di spicco dell’avanguardia culturale di quegli anni, poliedrico e anticonformista. Oltre che filosofo, è anche drammaturgo, poeta e mirmecologo, cioè studioso delle formiche e della loro vita sociale.
L’ostilità della madre di Ettore nei confronti di Braibanti e il clima greve e intollerante della provincia padana indurranno Ettore a raggiungere Aldo a Roma e a recidere i contatti con i famigliari, che reagiranno denunciando il filosofo e facendo internare il figlio in manicomio.
Partendo dalla storia dei due protagonisti, il regista Gianni Amelio, uno degli ultimi grandi maestri dell’epoca d’oro del cinema, torna a raccontare la società italiana e le sue contraddizioni.
Sullo sfondo della vicenda, sia quella umana che quella processuale, c’è il conflitto tra due idee diverse di società. Una contrapposizione culturale, oltre che politica, destinata a deflagrare nell’imminente scontro generazionale del sessantotto e degli anni della contestazione. Come ha chiarito il regista, però, “Il signore delle formiche è prima di tutto una grandissima storia d’amore tra un uomo e un ragazzo”.
Nel raccontare la vicenda processuale Amelio mette in secondo piano il dibattito accusa-difesa, preferendo soffermarsi sui primi piani e sui volti, per trasmettere gli stati d’animo e i tormenti dei protagonisti.
Il magistrale piano sequenza della deposizione di Ettore, con l’arrogante voce del giudice fuori campo, è straziante proprio per la naturalezza e la sincerità che trasmette. Come Braibanti, che rinuncia a difendersi, opponendo compostezza e silenziosa dignità, la narrazione è spoglia di ogni eccesso emozionale, il legame affettivo viene mostrato nel suo aspetto “platonico”, senza scene di sesso. Al regista non interessa la morbosità, tantomeno indurre lo spettatore alla compassione. Non strizza l’occhio al pubblico, mostra Braibanti com’era: orgoglioso e presuntuoso.
Eppure, o forse proprio per questo, coinvolge ed emoziona. Come in tutti i suoi film, Amelio racconta senza giudicare, ricostruisce minuziosamente la società degli anni Sessanta come se fosse il terrario delle formiche di Braibanti, permettendoci così di osservarla e comprenderne le dinamiche sociali.
Mai come oggi è importante riflettere sulle presunte “diversità”, di qualunque tipo esse siano. La forza de Il signore delle formiche sta proprio nel suo parlare al presente.
“Dietro una facciata permissiva i pregiudizi esistono e resistono ancora, generando odio e disprezzo per ogni ‘irregolare’ – ha affermato il regista- non sono ancora stati sconfitti i demoni che erano e sono tutt’ora presenti dentro la società perbenista.”
Una sceneggiatura ottimamente scritta e coinvolgente riesce a dare spessore e intensità a tutti personaggi, compresi quelli minori. La coralità della storia è esaltata dalle superbe interpretazioni di tutti gli attori.
Se di Luigi Lo Cascio ed Elio Germano, due tra i migliori attori italiani, la bravura è conosciuta, la prova dell’esordiente Leonardo Maltese è superlativa per l’innocenza e la tenerezza con cui interpreta Ettore.
Ma strepitose sono anche Sara Serraiocco, nella parte dell’attivista Graziella, e Anna Antonacci e Rita Bosello che interpretano le due madri.
Nello splendido finale campestre, sulle note dell’aria dell’Aida Morir sì pura e bella, Ettore e Aldo si ritrovano proprio dove tutto è iniziato. Ma ormai è tardi, non volevano essere né un mostro né un martire, purtroppo, li hanno fatti diventare tali.
[+] lascia un commento a sergio dal maso »
[ - ] lascia un commento a sergio dal maso »
|