| Titolo internazionale | Dead Souls |
| Anno | 2018 |
| Genere | Documentario |
| Produzione | Cina, Francia, Svizzera |
| Durata | 495 minuti |
| Regia di | Bing Wang |
| Tag | Da vedere 2018 |
| Rating | Consigli per la visione di bambini e ragazzi: |
| MYmonetro | 3,49 su 1 recensioni tra critica, pubblico e dizionari. |
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Ultimo aggiornamento venerdì 11 maggio 2018
Un documentario che riflette sulla violenza nascosta e perpetrata nei campi di lavoro forzato cinesi.
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CONSIGLIATO SÌ
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In quasi 500 minuti di film Wang Bing raccoglie le testimonianze dei sopravvissuti del campo di rieducazione di Jiabiangou e di altri laogai, voluti da Mao Zedong per il "Grande balzo in avanti" della Cina Popolare. Servono tutti e 496 i minuti a Wang Bing per ricostruire un quadro completo di quanto avvenuto a Jiabiangou. E per fornire una corretta percezione della coralità e gravità di un'esperienza a lungo sottaciuta o sminuita. Le molteplici testimonianze raccolte talvolta si sovrappongono e si confermano, talvolta no. Ma la rievocazione di pagine dolorose del passato reca con sé anche una componente di soggettività e tutto questo si rivela, nella sua disarmante sincerità, di fronte alla macchina da presa del documentarista cinese: l'uomo lasciato dalla propria moglie durante la reclusione ha una reazione radicalmente differente da chi sostiene di aver assistito a un miracolo e di aver ricevuto indicazioni celesti su ciò che sarebbe avvenuto.
Ad accomunare esperienze eterogenee è, tuttavia, il percorso di vite spezzate o irrimediabilmente trasformate dalla detenzione nei laogai, un'esperienza che annulla gerarchie e identità.
Luoghi ideati originariamente per ospitare i reazionari e i nemici della rivoluzione maoista, ma ben presto utilizzati semplicemente per togliere di mezzo personaggi scomodi all'interno delle gerarchie di partito. Solo uno degli intervistati era effettivamente un ufficiale al servizio del Kuomingtang. Il coinvolgimento di Wang è tale da portarlo più volte a intervenire nei colloqui o a collocarsi addirittura davanti alla macchina da presa. Come nel caso delle interviste a chi allora dava gli ordini, ai quadri di partito, impossibilitati quanto i prigionieri a intraprendere azioni autonome rispetto al volere governativo.
Un progetto, quello di Les âmes mortes, a cui Wang lavora da più di un decennio, costituito da materiale eterogeneo risalente in alcuni casi addirittura al 2005 - e caratterizzato da un differente standard qualitativo dell'immagine, digitale a bassa definizione. Wang fornisce alle testimonianze una struttura labile e apparentemente sbilanciata, che trova un fulcro nel rito collettivo che porta i superstiti sul luogo un tempo occupato dal campo. Il tentativo di ricostruire villaggi e campi coltivati su un terreno macchiato dall'infamia si scontra con la presenza di ossa umane in ogni dove, quasi a fornire una metafora fin troppo ovvia della difficile e parziale transizione della Cina verso la modernità.
Quando i sopravvissuti si raccolgono attorno a un fuoco per bruciare denaro, oggetti e offerte in onore dei morti è come se la pregnanza dell'operazione di Wang emergesse in un unico e folgorante istante. 496 minuti consegnati alla storia, per non dimenticare e per non stancarsi mai di scoprire verità nascoste, silenziosamente disinnescate dal rumore del progresso.