Mi è piaciuto e ne consiglio senz’altro la visione… anche se a mio parere non merita quel clamoroso 4,17 di preferenze su 5 che oggi gli viene accreditato! È un film costruito bene e altrettanto bene è recitato, soprattutto dall’eccellente Mortensen. Un po’ troppo sopra le righe, direi, il modo assolutamente snob, per non dire principesco, in cui è descritto e interpretato il personaggio di Donald Shirley.
A caldo ho pensato che se avessi dovuto paragonarlo a un film precedente (mia moglie aveva suggerito “Quasi amici”) lo avrei paragonato ad un film di successo di appena un anno fa: “Tre manifesti, Ebbing, Missouri”. Non perché le sceneggiature dei due film abbiano granché in comune, ma per la natura dei temi trattati e, soprattutto, per la modalità di raccontarli, comune a entrambi, e cioè la commedia. In entrambi i film si parla di gravi, quando non gravissimi, problemi sociali e familiari, ma lo si fa senza mai abbandonare il sapore della commedia. Entrambi i film affrontano i temi di una società americana che, al di là delle descrizioni di regime alla Spielberg, continua ad essere profondamente antidemocratica, anzi decisamente razzista e abbrutita, flagellata dalla povertà e dalla diseguaglianza sociale. Quella che con eufemismo viene da sempre definita “America profonda”, soprattutto gli Stati del Midwest e del Sud, è un’America semplicemente retrograda, oscurantista, fascistoide, razzista, violenta, decisamente ingiusta, e il film ne mette bene in mostra le caratteristiche. Ma lo fa con continui scatti d’ironia, un’ironia che non attenua la serietà degli assunti che stanno al fondo delle due storie, ma anzi direi che, per contrappasso, li esaltano.
In entrambi i film, come dicevo, si parla di razzismo, e di degrado sociale (oltre a un rapido ma non casuale accenno all’omofobia). “Green Book” ha, rispetto all’altro film citato il merito di mettere a confronto, e in competizione, due forme di conflitto così presenti anche oggi nel panorama americano, e ormai apertamente anche nel nostro: il conflitto etnico e il conflitto di classe. Qui, la trovata paradossale e luminosa è che il ricco, il colto, il padrone, l’uomo di successo, è il “negro”, mentre il bianco è servo, rozzo, incolto, sottoproletario. Quale delle due contraddizioni confliggenti è principale? Il film – saggiamente direi – non ce lo dice, mentre ci suggerisce che, comunque sia, entrambi i conflitti descrivono una democrazia che non è tale, una legalità che non è tale, soprattutto una giustizia che non è tale. Il pregio della sceneggiatura è porre le due questioni, quella della discriminazione razziale e quella di classe, in rapporto dialettico, cosicché il bianco sottoproletario e razzista finisce strada facendo per comprendere, per sentire, che il suo padrone “negro” è un uomo come lui, anzi spesso più debole di lui; e il padrone nero, colto e poliglotta, musicista affermatissimo, capisce che nella società in cui vive non c’è solo conflitto etnico, come sempre aveva pensato, ma vero e proprio conflitto di classe: tanto che a volte i termini sono così confusi da impedire una descrizione univoca della gerarchia sociale. Protagonista e coprotagonista finiranno per conoscersi davvero, per volersi bene, e per superare le rispettive originarie barriere culturali.
Lo Happy End in classico clima prenatalizio è un auspicio, credo, che può apparire un po’ troppo dolciastro, ma in fondo non dimentichiamoci che si trattava di una commedia!
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