DOGMAN (IT/FR, 2017) diretto da MATTEO GARRONE. Interpretato da MARCELLO FONTE, EDOARDO PESCE, ADAMO DIONISI, NUNZIA SCHIANO, ALIDA BALDARI CALABRIA, FRANCESCO ACQUAROLI, GIANLUCA GOBBI.
Marcello ha due grandi amori: la figlia Alida e i cani che accudisce con la sua dolcezza di uomo mite e gentile nel proprio negozio di toelettatura, Dogman. Nel sobborgo della periferia romana in cui vive, c’è, proprio accanto al suo negozio, un "compro oro" e la sala biliardo-videoteca, frequentata dall’uomo-simbolo che, insieme ai luoghi, esibisce più apertamente il degrado italiano degli ultimi decenni: l’ex pugile Simone, che terrorizza con la sua prepotenza e le sue continue scorribande l’intero quartiere. Con Marcello questo bullo che umilia e intimidisce i negozianti ha un rapporto simbiotico, simile a quello fra squalo e pesce pilota. Il dog-sitter gli procura esagerate quantità di cocaina e riceve una minima parte del bottino derivante dai "colpi". Quando Simone sceglie il negozio di Marcello come base per la prossima rapina, il povero dog-sitter, piuttosto che ammettere la colpevolezza dell’amico che però lo ha tratto in inganno, preferisce non firmare il documento che lo condannerebbe e si fa un anno di galera al posto suo. Stufo dell’irriconoscenza arrogante di Simone e del suo strapotere sempre in aumento, Marcello deciderà di rompere la sua sudditanza nei confronti dell’ex pugile, programmando quieto una vendetta dall’esito insperato che farà saltare irrimediabilmente ogni equilibrio. Liberamente ispiratosi a uno dei casi di cronaca nera più cruenti della nostra storia recente, la vicenda del Canaro della Magliana, Garrone racconta un’Italia diventata terra di nessuno in cui cane mangia cane, complice l’abbrutimento culturale e sociale che ha allontanato i cittadini non solo dal benessere, ma anche dalla solidarietà umana più elementare. Garrone depura la vicenda del Canaro dalla sua componente meramente oscena, ovvero la spettacolarizzazione, arrivando a desaturare la palette di colori delle sue inquadrature di desolazione suburbana – ottima la fotografia di Nikolaj Bruël, premiata col David di Donatello 2019 –, dei quali sfuma i margini ed evidenza l’essenza. Il regista costruisce una narrazione disperante restituendo una drammatica dignità ferita ai personaggi. Non finisce certo in secondo piano una rappresentazione non mitizzata (e qui gli sceneggiatori han fatto una scelta oltremodo oculata) della lotta fra Ulisse e Polifemo, del trionfo di Davide su Golia. Il dog-sitter è un ometto mingherlino il cui aspetto induce quasi per forza al pensiero che in lui alberghi più affabilità che propensione alla violenza, mentre la stazza mastodontica del boxeur in pensione ne disvela un animo dominato da malvagità e brutalità, pronte a scatenarsi ad ogni miccia che viene appiccata. Altrettanto importante è l’attenzione agli sguardi e alla recitazione: dimensioni da fantino e leggerezza da acrobata circense per Marcello Fonte, dalla cui interpretazione scaturisce luminosità, mentre dall’altro lato troviamo un irriconoscibile e gigantesco Edoardo Pesce i cui occhi comunicano l’opacità e la devastazione dei sogni falliti e l’attaccamento gravitazionale a una realtà andata a male. Lo scontro fra i due che man mano diviene più aggressivo e perdona sempre meno i torti fa tirare fuori ad entrambi il peggio di sé, con Marcello che frantuma la motocicletta di Simone; Simone che lo massacra di botte quando scopre che il suo motociclo è passato sotto i colpi di un piede di porco. Insomma, un continuo andirivieni di vendette implacabili in perfetto stile virile e mascolino, che compendia il traslucido momento omeostatico dell’inizio per degenerare nel combattimento conclusivo in cui il ciclopico malvivente ha il collo circondato da una catena e strozzerebbe l’avversario con le sue braccia possenti, se questi non pigiasse col piede, fra i singhiozzi e i rantoli, un pedale che gli consente di spezzare al suo nemico l’osso del collo. D’altra parte, l’opera inizia col ringhio di un pitbull da combattimento che produce negli altri cani chiusi in gabbia un’emozione trasecolante e intimorita, il che esplica con grande lucidità il meccanismo di sopraffazione e sottomissione tipico della vita del quartiere. Lo sguardo smarrito di Marcello (M. Fonte, premiato a Cannes 2018 per la migliore interpretazione maschile) in riva al mare, dopo l’ennesima prepotenza subita, è il modo di riconoscersi di un’Italia che ha compreso infine il proprio indelebile status di vittima. Marcello non implode né mette in atto una vendetta efferata e grottesca come quella in cui i quotidiani hanno abbondantemente sguazzato: la sua è una rivalsa tranquilla che si compone pezzo dopo pezzo grazie all’allinearsi dei soprusi patiti in una piramide (o escalation) che si guarda bene dal toccare punte di rabbia pericolose. Svellendo dalla vicenda qualsiasi macchia avvicinabile allo stile dei talk show, Garrone conclude un film meraviglioso lasciandoci un compendio del suo universo cinematografico: come già lo erano state le vele di Scampia in Gomorra (2008), anche in Dogman l’ambiente è un posto non più pensato per gli esseri umani, ma un labirinto adeguato soltanto per le osservazioni entomologiche. I personaggi attraversano con costanza e (sempre) con rassegnazione un luogo orizzontale dove ad innalzarsi sono soltanto le palazzine abusive, mai loro.
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