Seduto a tutte le ore in un bar di periferia, un uomo ha potere di soddisfare i desideri. Un prevedibile viavai di persone siede al suo tavolo con le richieste più varie – dalla bellezza alla notte infuocata con una starlette – e lui le accontenta. Naturalmente in cambio di qualcosa. Il prezzo richiesto l’uomo lo legge in un libro-quaderno che ha sempre davanti, e può consistere in azioni innocue come aiutare delle vecchiette ad attraversare la strada, difficili come rimanere incinta per una suora, oppure criminali come violentare una donna o uccidere una bambina. Non c’è un nesso evidente tra desiderio e corrispettivo. L’uomo si definisce come uno che chiude degli accordi, insiste con tutti che sono liberi di accettare o meno, e sembrerebbe quasi sollevato se loro rifiutassero. Non gl’importa come le azioni chieste in cambio vengano portate a termine, gl’interessa però conoscerne i dettagli che va scrivendo sul suo libro. Non chiede né sembra interessato a compensi per sé.
Chi è l’uomo che abita il bar? Etichettarlo non è agevole e forse non ha troppa importanza. Un subordinato dio gnostico, un diavolo post-moderno, una sgualcita parca in abiti d’ufficio, un sacerdote-profeta spossato e scettico? Scena dopo scena scopriamo un essere saturo di destini, assonnato e insonne, incredulo al bene e al male, rassegnato alla cieca volontà degli uomini, che non fa nulla per dissuaderli o sedurli, che ha quasi pena di accontentarli, che scrive e soprascrive nel suo libro sacro le loro azioni, ovvero i dettagli che gli stanno tanto a cuore. Un essere, che intuiamo soprannaturale, indifferente e forse decaduto, a cui rimane l’unico potere di leggere nella sua caotica scrittura le combinazioni spesso delittuose che realizzeranno i desideri umani. Un essere in possesso, e forse posseduto, dal dono dubbio di sfogliare nel suo libro la trama unica del mondo, ovvero l’incessante intrecciarsi e collidere di tutte le vite, e lo sfasciarsi, e qualche volta il ricomporsi di ogni vita con i pezzi delle altre.
Dall’altra parte del tavolino i suoi clienti: dominati da un’unica idea, potenzialmente assassina come tutte le idee assolute, fosse anche quella di salvare un figlio, oppure sentire Dio; liberi di rifiutare l’accordo, eppure già scritti nel libro che viene scritto e riscritto con le loro stesse scelte; capaci di scambiare e confondere bene a male, di mostruosità a partire dalle migliori intenzioni, d’inattesi riscatti dopo una serie di abiezioni. D’idee assassine si muore, si uccide, ma si può anche risorgere.
Se The Place, il bar, fosse un luogo fisico potrebbe rappresentare il paradiso perduto in cui si è insinuato il caos; oppure il tempio dissacrato in cui offriamo i nostri voti, talvolta abietti, in cambio d’incerte preghiere che neppure comprendiamo. Ma ci sono altre soluzioni. Se il luogo fosse il teatro della nostra coscienza, l’uomo che lo abita - l’uomo dei desideri - sarebbe uno specchio: il limite indicibile che siamo disposti a superare per soddisfare un’ossessione, come pure il conflitto interiore attraverso cui possiamo liberarcene.
Angela è la proprietaria del bar. E’ veritiero il suo nome? A sera fa le pulizie e rassetta la sala, come un principio d’ordine nel caos; parla d’amore e si siede davanti all’uomo, unica a non chiedergli qualcosa. Prova (invano) a farlo ridere, e lui in tutta la storia ha un unico sguardo d’umanità proprio riferito a lei. Angela gli sta di fronte alla pari, oppure è superiore proprio in virtù del suo amore? L’ultima inquadratura riserva una sorpresa e (forse) una speranza. Si brucia un altro desiderio, il libro passa di mano, e l’uomo si trova dall’altra parte del tavolo. Ha anche lui qualcosa da chiedere? O addirittura, sin dall’inizio, il ruolo di dispensatore di destini è il prezzo sgradito pagato in cambio di qualcosa che anche lui ha chiesto? Oltre Angela c’è qualcun altro? La spirale dei desideri e dei prezzi - il gioco di specchi - da qualche parte finisce? Chi guarda dall’alto la strada, e l’interno del bar attraverso la vetrata? Esiste veramente qualcuno là fuori?
Interrogativo e plurimo quest’ultimo film di Paolo Genovese, tratto dal soggetto originale della serie “The booth at the end”. Girato dentro un bar in perfetta unità di luogo, The Place completa la triade aristotelica d’unità di azione e tempo nel meccanico susseguirsi di movimenti scenici, di giorni e notti. Privo di avvenimenti, se non quelli raccontati dai personaggi, lo svolgimento è tutto giocato sui dialoghi, sul non detto, su espressioni e sfumature. Ottimo Valerio Mastandrea, affiatati e all’altezza gli altri comprimari, una menzione speciale per Alba Rohrwacher perfetta nella parte. The Placepostula domande, insensate per molti, cruciali per altri, neppure ipotizzando soluzioni. Domande che comunque difficilmente contemplano un’unica risposta. Almeno da questa parte della realtà.
[+] lascia un commento a ninoraffa »
[ - ] lascia un commento a ninoraffa »
|