Intendiamoci da subito: se si cerca in Snowpiercer puro intrattenimento, l’obiettivo è centrato in pieno, grazie a una storia accattivante, azione, sangue, colpi di scena. Ma se parliamo di “capolavoro”, o qualcosa di simile, be’, allora siamo davvero molto distanti.
Fin dalle premesse, Snowpiercer ci promette di parlarci, attraverso la poco velata metafora del treno, di cos’è il modo e cosa sono gli uomini: compito sempre nobile e affascinante, ma anche molto difficile, perché il rischio di scivolare nel già visto, nel banale e/o nell’assurdo è sempre dietro l’angolo. E Bong Joon-ho, purtroppo, non supera il guado.
La situazione surrealistica del treno-mondo è senz’altro suggestiva, ma davvero troppo limitativa per la grandezza delle tematiche: quand’anche i rivoluzionari si fossero sottratti alle loro condizioni di sottomissione e abbrutimento, riuscendo a conquistare la locomotiva, cosa ne avrebbero ottenuto? Non certo la libertà, impossibile da conquistare in un mondo che è tutto lì, in qualche decina di carrozze. E se viene meno l’ideale della libertà, viene meno anche la forza vera dell’ideale rivoluzionario. Ecco allora che i personaggi che risalgono il treno da fondo a cima appaiono non tanto come uomini in lotta per il sovvertimento di un ordine sociale imposto, con tutte le implicazioni filosofiche e sociali collegate, quanto piuttosto come marionette che si muovono in un teatrino per ottenere un pranzo migliore.
Bong Joon-ho, insomma, non riesce a dare complessità a un tema che risulta appiattito e semplificato quanto l’ambiente in cui è costruito il film. È banale il vecchio saggio “ideologo” della rivoluzione, è banale il capo rivoluzionario dal passato poco nobile, è banale la mamma agguerrita alla ricerca del figlio perduto, soprattutto è banale il “super-dittatore” con tutta il corredo di retorica totalitaria, riproposto veramente troppe volte, senza neppure un minimo di originalità, dal Grande Fratello di Orwell in poi. Da notare, poi, come non giovi certamente a dare brillantezza al film la profusione di sangue che occupa tre quarti del film.
Non è tutto da stroncare, comunque. Sono da accogliere positivamente i personaggi dell’apritore di porte e di sua figlia, perché sono gli unici personaggi che finalmente sfuggono alla banalizzazione della recitazione di un ruolo prestabilito, e inquadrandosi come forze esterne e indipendenti, rispetto allo schema “dittatore vs rivoluzionari”, ci danno un punto di vista diverso e nuovo. E poi, nella parte finale, le rivelazioni che il super-dittatore fa al capo rivoluzionario offrono effettivamente interessantissimi spunti di riflessione: le rivoluzioni come strumento non di sovvertimento ma di controllo dell’ordine prestabilito, grazie al ruolo di insospettabili “infiltrati” che fomentano il popolo rispondendo invece al volere del dittatore. Sono temi, questi, profondi e attualissimi, peccato che vengano “annacquati” dalle ultime scene, che ricascano nella retorica della fantascienza post-apocalittica, con tanto di disastro finale e speranza ultima di rinascita.
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