Roberto Nepoti
La Repubblica
Un film integralista, controriformista, "pulp", sadico, ignaro d'ogni spiritualità. Un'opera profondamente religiosa, intensa, pura, un veicolo di apostolato tra gli spettatori. E' mai possibile che, in un solo film, ci stia tutto e il contrario di tutto? A parte il fenomeno mediatico, (abbastanza repellente), la sola cosa notevole della Passione di Cristo è la capacità di far sì che ciascuno vi proietti i propri fantasmi personali: più che una seduta di cinema, una seduta di psicanalisi.
Se andiamo a guardare da vicino l'oggetto filmico, però, nel suo linguaggio specifico e nelle scelte di regia, troviamo ben poco. Le idee di regia, anzi, latitano del tutto: a meno di voler considerare tale quella lacrimona (di Dio?) che piove dal cielo durante la Crocifissione.
Il resto è soltanto un rozzo mischione di western all'italiana del tempo che fu - quello sadico di Giulio Questi, in particolare - e inserti orrorifici, corredato di scene al rallentatore per le parti più truculente e di flashback dove si contrappone l'ora del martirio alla serenità del tempo passato. "Figure" cinematografiche abusate dallo spaghetti-western ma oggi in disuso, e di cui non si sentiva proprio la mancanza. Non può essere un caso se le fisionomie bestiali, teratologiche di Barabba o dei torturatori del Cristo evocano, assai più che i dipinti di Hieronymus Bosch, le facce dei messicani cattivi nella Trilogia del dollaro di Sergio Leone; o se Belzebù e i mostriciattoli del film rimandano, anziché all'arte sacra, agli horror dello stesso periodo.
O ancora se l'ultima scena, con musiche Morricone-style, sembra l'inizio di Gesù 2 - La vendetta. Il Vangelo secondo Mel Gibson è una via Crucis anche per il povero spettatore: e meno per la truculenza morbosa delle torture - focalizzate non dalla parte della vittima sacrificale, ma da quella di chi le infligge - che per la straziante mediocrità di un film pretenzioso e corrivo, che non trova un solo momento d'ispirazione né (vedi la Maddalena di Monica Bellucci) di disperazione.
Troppo facile evocare, a contrario, la misura e l'intensità del Vangelo secondo Matteo di Pasolini, la sobrietà didascalica del Messia di Rossellini o immaginare cosa avrebbe potuto fare il grande Dreyer del suo irrealizzato Jesus. Ma ora viviamo in tempi di cinema pulp: che in Tarantino è puro gioco formalista, inoffensivo; in Gibson si fa carne, sangue e brandelli di pelle mirando dritto allo scandalo. E se è vero che gli scandali devono avvenire, non crediamo proprio che i Vageli intendessero questo.
Da La Repubblica, 9 aprile 2004
di Roberto Nepoti, 9 aprile 2004