Quando uscì, novant'anni fa, fu un totale flop. Troppo incompreso perché troppo avanti, già avanguardista, capace già di rivoluzionare le forme del genere. Riguardandolo oggi, il film di Dreyer appare come una visione, un'esperienza, un viaggio ipnotico che rivela un universo allucinato e fantastico. Al cinema dal 10 gennaio in versione restaurata.
di Simone Emiliani
Le sfide più belle e difficili non si vedono subito. Spesso hanno bisogno di anni, o anche di decenni. Vampyr è una di questa. Dreyer lo ha realizzato dopo La Passione di Giovanna d’Arco, che era stato amato dalla critica ma era andato incontro a un insuccesso di pubblico tanto che la Socièté Générale de Films, che aveva prodotto il film, aveva rotto il contratto con il regista. Il flop di Vampyr invece era stato totale. Troppo incompreso perché troppo avanti, già avanguardista, capace già di rivoluzionare le forme dell’horror.
Arriva a dieci anni di distanza Nosferatu di Murnau e un anno dopo Dracula di Browning. Ma, tranne che per il tema sui vampiri, è completamente diverso. Le ombre non sono quelle del cinema espressionista. Mostrano invece lo sdoppiamento proprio del cinema di Dreyer, la capacità di mostrare insieme l’anima e il corpo, il desiderio e la morte.
Con Vampyr Dreyer disegna una tappa fondamentale nella storia dell’horror. Si tratta del primo film sonoro del cineasta danese anche se era stato pensato come un film muto. Non ci sono molti dialoghi ma i rumori, le voci, i brusii diventano fondamentali.