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DNA - La serie: dal nordic noir al racconto dell'Europa

Una serie poliziesca, ispirata a un errore reale nei registri danesi del DNA, che è anche un viaggio interiore attorno alla genitorialità. Disponibile su MYmovies ONEGUARDA ORA »
di Gabriele Prosperi

domenica 9 novembre 2025 - mymoviesone

Se DNA appartiene alla costellazione del nordic noir – genere che dalla letteratura scandinava si sviluppa in televisione a partire dal 2005 con la serie svedese Wallander, per poi consolidarsi con la danese The Killing (Forbrydelsen) e con la dano-svedese The Bridge (Bron) – è perché ne eredita l’etica della precisione e la temperatura cromatica prosciugata. Ma, allo stesso tempo, se ne allontana spostando il baricentro dal paesaggio all’infrastruttura: la serie mostra schermi che si aggiornano in una lingua e restituiscono risultati in un’altra, uffici distanti che aprono le stesse schede; in altre parole, il genere alla fine degli anni 2010 si “europeizza” e trasforma l’ambientazione in una rete di connessioni.

La serie danese è stata creata nel 2019 da Torleif Hoppe, già sceneggiatore e co-creatore di The Killing – figura centrale della stagione d’oro del drama – qui alla guida di un progetto coprodotto con ARTE e ispirato a un errore reale nei registri danesi del DNA, un vero e proprio bug di sistema che portò alla riapertura di vari casi. La serie si muove su una doppia ellisse: da un lato il poliziesco che procede per indizi incrociati; dall’altro, un viaggio interiore attorno alla genitorialità, tema “scottante” capace di unire le diverse anime linguistiche e culturali del racconto. Al centro troviamo Rolf Larsen – interpretato da Anders W. Berthelsen (Kingmaker, The Reunion) – un poliziotto che, partendo da Copenaghen per seguire la pista su una bambina scomparsa, nel corso dell’inseguimento perde di vista per un attimo la propria figlia: un istante che frattura il tempo e il personaggio. Anni dopo, un’anomalia nelle banche dati genetiche riapre le indagini, costringendolo a un percorso che attraversa frontiere e competenze: Danimarca, Francia, Polonia; laboratori, conventi e dogane; colleghi e sconosciuti che non parlano la stessa lingua ma condividono lo stesso lessico della ricerca. 


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L'europa come macchina procedurale

La cooperazione internazionale funge da meccanismo narrativo che dà forma agli eventi. DNA la mette in scena con un montaggio di sincronizzazione: un dato emerso in un laboratorio danese attiva un’azione in un commissariato francese, che a sua volta genera una testimonianza in un istituto polacco. Ma il punto non è tanto la giostra giurisdizionale, bensì la rappresentazione di un workflow policentrico in cui la verità dipende dal grado di allineamento tra nodi amministrativi, tecnici e giuridici.

Sul piano poliziesco, la logica dell’interoperabilità si concretizza nello scambio automatizzato di profili del DNA, di impronte e dati dei veicoli, che rende più rapida la fase di identificazione e de-duplica il lavoro investigativo. Sul piano giudiziario, la storia ricorre a strumenti di riconoscimento reciproco (mandati, ordini di indagine, squadre miste), facendo vedere che la soluzione del caso non è mai meramente tecnica: serve una sovrapposizione di consensi tra uffici che ragionano con codici e calendari diversi. Il racconto insiste, inoltre, su una tensione strutturale: l’indizio nasce locale ma acquista status probatorio solo quando percorre la rete, quando accumula i metadati e ottiene convalide. Così l’indagine diventa una supply chain: ogni passaggio è necessario ma insufficiente; ciò che conta è la qualità dell’incastro.

La cooperazione infrastrutturale raccontata da DNA è anche sinonimo di traduzione, non solo e non tanto tra lingue diverse, quanto tra standard probatori: ciò che è sufficiente in una giurisdizione può non bastare in un’altra. La serie, valorizzando i tempi amministrativi, trasforma i micro-attriti tra le giurisdizioni in espedienti narrativi per rivelare come funzionano queste istituzioni. L’immaginario della task force transnazionale trova un corrispettivo realistico nelle squadre investigative comuni e nei centri di coordinamento: luoghi (fisici o digitali) in cui si pianificano perquisizioni simultanee, si distribuiscono ruoli, si condividono regole di divulgazione e linee di comando. Centrale – seppur garantendo la coralità del racconto – è qui il personaggio dell’investigatrice Claire Bonin, interpretata da Charlotte Rampling, capace di fungere da metronomo etico e soprattutto da ponte transnazionale, essenziale per incollare il genere locale a una contestualizzazione continentale. 


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Perché proprio il crime?

Se il crime è oggi lo strumento con cui l’Europa racconta sé stessa è per compatibilità strutturale: è un genere procedurale, capace di rendere visibile l’Europa come pratica (banche dati, protocolli, riconoscimenti reciproci); è dialogico, perché mette in scena conflitti di principi (libertà contro sicurezza, privacy contro efficacia, garanzie contro prove); ed è circolante per natura industriale, grazie a formati riconoscibili, coproduzioni, casting transnazionali e multilinguismo.

Queste tre qualità lavorano insieme quando il confine diventa un dispositivo narrativo; lo notiamo in vari prodotti, a partire ovviamente dalla capostipite Bron: il franchise di The Bridge nasce proprio da un omicidio che, anche metanarrativamente, funge da ponte e costringe le polizie a condividere metodo e prova, materializzando il mutuo riconoscimento e inevitabilmente traducendosi in un franchise facilmente rilocalizzabile (con remake statunitensi, franco-britannici, russo-estoni, malesi, tedeschi e gruco-turchi). Nella stessa logica, la serie danese The Team portava in primo piano l’operatività delle squadre investigative europee, con piani condivisi, divisione di ruoli, regole di divulgazione.
Il carattere dialogico emerge con forza quando la prova incontra le tecnologie della visione e il filtro dei media: recentemente, la rinarrazione del caso Amanda Knox (The Twisted Tale of Amanda Knox) ha reso percepibile l’attrito tra ordinamenti, lingue e pressione mediatica: una prova che viaggia deve tradursi per essere riconosciuta, e in quel tragitto può deformarsi.
La dimensione circolante riguarda anche l’economia del racconto. La serie del 2020 ZeroZeroZero (guarda la video recensione) (creata da Stefano Sollima, Leonardo Fasoli e Mauricio Katz) nasceva da un’alleanza produttiva tra Italia (Cattleya), Francia (Canal+) e un attore globale (Prime Video) per seguire una filiera criminale, quella del traffico della cocaina, che attraversa i continenti.
Tutte estetiche che risuonano in DNA quando la storia si aggancia a infrastrutture e catene di custodia. A monte, la traiettoria internazionale di Gomorra – La serie chiarisce perché il crime sia il veicolo ideale per scalare i mercati senza perdere radicamento; e perfino un progetto non crime come The Young Pope funziona da cartina al tornasole: coprogettazione e ri-pacchettamento mostrano come un immaginario locale possa percorrere circuiti differenti mantenendo la riconoscibilità.
Messi in sequenza e incrociati con DNA, questi esempi delineano una grammatica comune: il caso come prova di coordinamento, la verità come allineamento riuscito tra lingue (e standard). Qui il crime mostra la sua utilità civile: fa toccare con mano come le istituzioni europee funzionano quando devono connettersi e permette alla serie di Torleif Hoppe di raccontare i difficili raccordi intraeuropei, fino a discutere di una genitorialità “spuria” priva di pregiudizi o posizionamenti politici, riconoscendone la matrice condivisa in ogni rapporto genitore-figlio.
Curioso, in fondo, che a unirci oggi sia un genere fondato sul riconoscimento di un’emozione comune – il dolore: lo stesso che attraversa l’Europa mentre guarda all’Ucraina e a Gaza. Quando quel dolore smette di essere solo strumento di potere e diventa misura condivisa della perdita, può trasformarsi in un linguaggio civile: una premessa minima di riconoscimento reciproco, da cui ricominciare a tenere insieme persone e istituzioni.


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Serie TV, Drammatico, Poliziesco - Danimarca, Norvegia, Svezia, Islanda, Finlandia, 2023, 6x60’

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