lunedì 6 maggio 2019 - Festival
In principio erano Fred Astaire e Gene Kelly. La confidenziale eleganza del primo, la muscolare energia del secondo. Invece no. Non esattamente almeno. Il documentario di George Nierenberg, realizzato nel 1979 e presentato in anteprima sugli schermi di "La settima arte", ripara un'ingiustizia e rimette in prospettiva la storia della tap dance (tip tap), una danza sonora che combina leggerezza, velocità e virtuosità di battuta. La tap dance, come il jazz o il rap, sono rami di uno stesso patrimonio.
Sono l'eco di un passato inscritto in un contesto particolare, la storia dei neri d'America. È una prospettiva che non possiamo dimenticare come non bisogna dimenticare i determinismi sociali che hanno pesato sulla nascita di queste espressioni artistiche e sul loro divenire.
No Maps on My Taps fa un passo sincopato indietro ponendosi una questione di identità, di storicità, di specificità, prendendo soprattutto in considerazione l'apporto decisivo degli artisti afroamericani alla tap dance e tralasciando la parte effettiva che i ballerini bianchi hanno avuto nella sua elaborazione e popolarizzazione. L'evoluzione del tip tap è inevitabilmente legata a questioni di razzismo e di relazione tra razze negli States, dove la rumorosa danza degli zoccoli irlandese si fonde col ritmo sincopato e frenetico battuto dai neri a piedi nudi sul terreno.
D'altra parte tutte le culture nascono da uno scambio e tutte le specificità culturali dalla combinazione infinita di diverse eredità. George Nierenberg risale il tempo, accennando a Fred Astaire, che aprirà considerevolmente lo spazio del tip tap impiegando il corpo e le braccia, e puntando su Bill Robinson, la cui firma stilistica, verticale e swingante, incarna la fusione di tecniche anglo-irlandesi e di sensibilità ritmica afroamericana. Sarà lui nel 1928 a mostrare Shirley Temple la famosa "danza della scala" (Il piccolo colonnello) e a fornire una prima alfabetizzazione ritmica a un pubblico neofita.
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Incrociando le testimonianze di Howard Sims (nominato Sandman), Chuck Green, Bunny Briggs e John William Sublett (nome d'arte John . W. Bubbles), George Nierenberg abborda la danza, ne cerca il corpo, oggetto fugace senza contorni fissi e tuttavia d'incontestabile apparenza. Corpo che costituisce spesso una costruzione sociale complessa, un luogo di sensibilità e manifestazione di un'identità individuale e collettiva, un'istanza rappresentativa e un vettore di relazioni sociali.
Incollato ai loro piedi, il regista ricostruisce la storia di una tradizione che esplode al debutto degli anni Venti nei teatri di Harlem, l'Apollo o il celebre Cotton Club. In una dinamica di mimesi e di sfida, vero e proprio motore di trasmissione creativa che riflette la maniera di Sims, Green e Briggs di approcciarsi, il documentario li osserva sfidarsi sul palcoscenico perché i ballerini di tap dance non riproducono pedissequamente un modello prestigioso ma lo imitano per eguagliarlo inizialmente e poi doppiarlo con le risorse del proprio genio creativo. Tra imitazione e invenzione, i protagonisti hanno maturato ed elaborato uno stile personale che Nierenberg mette in scena con lo spirito istintivo e cool dei suoi artisti.
Tre star che hanno portato alla perfezione una disciplina che agli occhi del pubblico veicola l'immagine di un'esplosione di energia spontanea e gioiosa, riflettendo uno stato di natura piuttosto che di cultura. Le parole degli artisti afroamericani, la partitura complessa delle loro performance, il gesto puro della loro arte dicono invece lo spirito alla base della loro straordinaria energia creativa. Affrancando le loro esibizioni da qualsiasi esotismo, No Maps on My Taps restituisce a quelle esecuzioni una trama narrativa che muove dalle piantagioni, passa per Broadway, la segregazione e il razzismo fino a interrompere il suo battito metallico sotto l'elettricità e il volume del rock'n'roll. L'elitismo culturale, la mancanza di rispetto permanente verso le forme culturali afroamericane, il razzismo estetico che impedisce (ancora) agli americani di omaggiare un'arte che non deriva dalla cultura bianca, l'estromissione del tip tap dagli schermi a partire dal 1945, saranno all'origine del declino di una forma d'arte di cui il documentario rintraccia gli ultimi sopravvissuti.
Howard Sims, Chuck Green, Bunny Briggs, John William Sublett hanno resistito negli anni tramandando il loro mestiere a nuove generazioni di ballerini (Gregory Hines, Savion Glover), performer che hanno saputo donare una forma nuova a un'arte antica.
No Maps on My Taps risuona un po' come una riaffermazione culturale radicata nel territorio (la strada) e nella memoria della comunità afroamericana. Nello stile tellurico di John W. Bubbles, nella sandbox di Howard Sims, nel glissato di Chuck Green, nelle simmetrie di Bunny Briggs ritroviamo la qualità originale della tap dance. Quella di essere una danza che marca la presenza, dietro al ballerino, di un essere umano, del suo immaginario, della sua storia, del suo corpo. La tap dance è una danza d'espressione. Come sosteneva la scrittrice afroamericana Toni Morrison: "i neri americani erano sostenuti, curati e nutriti dalla trasformazione della loro esperienza in arte e soprattutto in musica". I virtuosi di George Nierenberg sottoscrivono.
Gioiello della Reading Bloom, casa di distribuzione cinematografica torinese, No Maps on My Taps è un 'numero indimenticabile' di tip tap da vedere e ballare come respirare.