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ONDA&FUORIONDA

La grande bellezza, Il grande Gatsby: così diversi, così simili.
di Pino Farinotti

In foto una scena de La grande bellezza.
Paolo Sorrentino (55 anni) 31 maggio 1970, Napoli (Italia) - Gemelli.

domenica 16 giugno 2013 - Focus

Cultura mediterranea e cultura anglosassone, diciamo così. L'australiano Luhrmann e l'italiano Sorrentino, in nome del cinema, si incrociano, si specchiano e si... intrattengono. Non esistono storie più diverse da quelle di Jay Gatsby e di Jep Gambardella: accostamento certo improprio, parlo di popolarità, di mito e di tutto il resto, ma strumentale. Sono comunque storie che raccontano fallimento e dolore, sogno infranto, con peso drammatico diverso naturalmente. Un comune denominatore, per cominciare: le feste di New York e le feste di Roma. Attribuendo, certo con arbitrio, a Fitzgerald una sintesi del film di Luhrmann, il regista che ha preso in mano l'adorata, dallo scrittore, storia di Jay Gatsby, qualche settimana fa ho scritto:

"... Iperbole, carnevale, eccesso, magniloquenza, sfarzo, frenesia, ipertrofia: tutto questo è stato attribuito al film, ed è legittimo non c'è dubbio, ma dico anche che trattasi di contorno, certo eclatante e invasivo, della sostanza. Ma la sostanza, la scrittura, mi sia concesso, possiedono troppa potenza e perfezione per essere stravolte. Sì, il mio romanzo è davvero impossibile contaminarlo, incrinarlo, deformarlo: tutto questo non è a mia discrezione, è accreditato, è "storico"."

Credo proprio che le prime due righe possano essere attribuite a La grande bellezza.
Voglio chiamarlo "vezzo", quello del cinema contemporaneo di applicarsi al linguaggio, all'estetica, alla citazione, a poi "all'iperbole, carnevale, eccesso, magniloquenza, sfarzo, frenesia, ipertrofia", appunto. A scapito del corpo centrale, della sostanza. La critica prevalente non ha amato il film di Luhrmann accusandolo di aver girato attorno all'essenza del racconto, senza mai entrarci davvero. Dico che l'essenza è emersa proprio in virtù del fatto che il romanzo è impossibile da "contaminare, incrinare, deformare". Ma certo le distrazioni erano potenti. Ed era come se su tutte le sequenze scendessero miliardi di coriandoli luminosi, senza soluzione di continuità. La parte iniziale delle feste romane, balli, frastuoni, movenze non è lontana dalle feste di Gatsby. Certo, lontanissima è la cultura: Long Island, persino la East Egg colonia dei veri ricchi, non può misurarsi con un terrazzo che dà su una piazza romana dove sono sfilati monarchi, condottieri e papi. E le magnifiche magioni del primo novecento, della costa orientale degli Stati, potevano mostrare su una parate un Edward Hopper, ma su quelle dei palazzi rinascimentali di Roma c'era Raffaello Sanzio. Ma l'impatto, chiamiamolo così accomuna gli scenari.

Epoca
La scarsa attenzione alla sostanza-sostanza dei due autori fa parte della comunicazione e dunque del cinema di questa epoca. Però è un peccato. Di This Must Be the Place di Sorrentino avevo scritto che si tratta di una magnifica, colorata confezione legata da nastri preziosi, ma scuotendola "dentro" si sentiva poco. Il film era un rutilante esercizio alla Coen ma senza la sostanza, appunto, dei fratelli.
L'attenzione estetica che certo non è un elemento deteriore tutt'altro, de La grande bellezza, è stata colta da Rossella Farinotti che ha scritto.

"... Dietro a ogni singolo spunto (e sono tanti) cosa rimane? Rimane il volto (o non volto, come un'opera della body artista Orlan, che da cinquant'anni lavora sulla chirurgia plastica) di una Sabrina Ferilli intensa, diversa e umana. Rimangono scene romane glitterate, come una fotografia di La Chapelle, scintillante ma dalla poca sostanza, rimane l'enorme, felliniana Serena Grandi, caricatura di se stessa, sfatta, che balla, si fa fare il botulino e non si stacca dalla cocaina, quella "buona" servita ai ricchi romani che popolano strade, uffici e party..."

Estremizzo in paradosso: è come se Sorrentino (e Luhrmann) applicandosi all'Iliade illustrasse alla perfezione gli "attori" Achille, Ettore, Ulisse, Agamennone e Menelao, Andromaca, Ecuba e Cassandra, e gli altri, arricchendoli di "espressione e di cinema", ricollocandoli magari come eroi che rifanno testo. Solo che il regista ha dimenticato... la guerra di Troia. Infine i modelli. DiCaprio e Servillo. Anche loro, diversi che di più non si può, hanno in comune il sortilegio del talento, altissimo. Servillo è "materia infinita": marmo, bronzo, cera, legno, metallo, tutto. DiCaprio è tutto questo, in più è giovane e bello. Se a due come loro dici: mi occorre una magia, quelli te la fanno. È persino troppo facile fare il regista, così.

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