Eric Steel racconta in modo provocatorio e risoluto i suicidi avvenuti sul Golden Gate Bridge di San Francisco, in un film sull'animo umano in crisi e sul tenue legame tra vita e morte, tra chi è scomparso e chi resta.
di Claudia Resta
Com'è nata l'idea di questo film?
Nel 2003 lessi l'articolo di Tad Friend che parlava del paradosso del Golden Gate Bridge: questa pietra miliare americana era diventata la meta privilegiata dai suicidi in assoluto nel mondo e le autorità dal ponte fornivano scuse evasive al rifiuto di erigere una barriera anti-suicidi.
Ha un particolare interesse per i suicidi?
Ho un rapporto fortuito e distaccato, anche se il mio secondo nome mi è stato dato in ricordo di mio zio che si era suicidato. Tuttavia, mio fratello minore è morto di cancro e la mia sorella minore è stata uccisa da un guidatore ubriaco. Credo quindi di essere una persona sensibile nei confronti della sofferenza.
Perché ha fatto questo film?
Volevo comprendere quest'oscuro angolo della mente umana: i suicidi sul Golden Gate Bridge sono insoliti perchè si consumano alla piena luce del giorno, di fronte a tanta gente in un luogo trafficato, mentre di solito li immaginiamo in una privacy totale. Forse queste persone vogliono essere viste.
Come è stato realizzato il film?
Ho piazzato le videocamere e ottenuto i permessi per filmare il ponte per un anno, di giorno, da due punti d'osservazione. L'operatore doveva semplicemente sostituire le cassette ogni ora e premere il tasto per la registrazione.
La "prima volta"?
Quell'uomo sembrava godersi un giorno di primavera in tuta, parlava al cellulare, rideva. Poi ha messo giù il telefono, è rimasto seduto sul parapetto, si è fatto il segno della croce e si è lanciato. Abbiamo contribuito a salvare delle vite, ma non siamo stati in grado di aiutare gli altri e ciò è profondamente e inesplicabilmente sconvolgente.