Pur ponendosi in continuità tematica col più epico "Il gladiatore", in Robin Hood Crowe non riesce a far breccia quanto nella sua precedente interpretazione. Del resto il film non ha grosse pretese. Lo si capisce sin dalle prime battute. La battaglia iniziale, stesso scenario col quale si era aperto Il gladiatore, non vede un crowe leader indiscusso, semmai soldato coraggioso, capofila dei compagni, ma nulla più. Né è carica del medesimo pathos e dello stesso batticuore. E’ un Crowe, peraltro, diverso. Pur con evidenti strascichi dell’eroe romano, del generale Massimo e poi del leone dell’arena, questa volta ci si trova di fronte a un attore non pienamente entrato nel suo ruolo. Forse perché non entusiasmato dalla parte, forse perché vere sono le voci di conflitti nati sul set con Scott. Insomma, fallito definitivamente il tentativo di riportare in vita Massimo Decimo Meridio, al cineasta non è rimasto che ripiegare su un Robin Hood avvolto da un “patinume” di storicità inattendibile e palesemente forzato. Si è trattato, in sostanza, dell’ultima spiaggia per conferire al film la benché minima credibilità, spazzate via le ipotesi di costruire un Robin Hood già noto ai più e appesantito della più barbosa intelaiatura mitico - leggendaria. Un ultimo lido che conduce direttamente alla scena conclusiva del film, proprio sul teatro di un litorale sabbioso avvolto da una preziosità naturalistica, la sola ad aver conferito ricercatezza al momento. La battaglia finale non ha nulla di ugualmente unico, e in questo serve da metro per tutta la pellicola, rispetto ad altri confronti bellici, pur affrontati degnamente in film della stessa firma che avessero al centro crociati contro islamici o germani contro romani.
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