L'Immortale

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L’immortalità che condanna Ciro Di Marzio Valutazione 0 stelle su cinque

di Rossana Cima


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sabato 7 dicembre 2019

Il bello di partecipare alle première è che hai la fortuna di tastare con mano le tensioni degli attori protagonisti e dei produttori, e Marco D'Amore in questo film ha dato sfoggio di entrambi. 
Seguo Marco da “Una vita tranquilla” e, ovviamente, da “Gomorra”, di cui questa pellicola rappresenta un riuscitissimo e originale spin off. 
Tutto il film è congegnato su di un parallelismo sorretto da cadenzati flashback: il Ciro bambino, che perde madre e padre per mano del terremoto del 1980, cresciuto a pane e furtarelli tra l’orfanotrofio e i perigliosi vicoli di Napoli; il Ciro quarantenne, navigato boss della malavita, oggi emigrato a Riga dopo la morte di moglie e figlia. Ma anche le sanguinose faide partenopee degli anni Ottanta per il contrabbando delle sigarette e l’odierna guerra in terra lettone tra aspiranti narcotrafficanti di una elegante mafia russa e di una congrega locale di naziskin. E ancora, le neomelodiche ed evanescenti donne dei malavitosi della camorra che fu e le moderne mogli-madri-lavoratrici, che con pragmaticità e lucida ferocia portano oggi sottobraccio il consorte nei meandri del crimine, pronte a sostituirlo non appena vedove.
Trascendono il tempo e lo spazio le sanguinose rese dei conti, gli andrenalinici incontri al vertice, gli intrighi, i tradimenti, le location a tinte fosche, i blasfemi santini e rosari; stessi dialoghi, stessi brutti ceffi, napoletani o slavi che siano nell’accento e nelle fattezze. 
Sarebbe stato facile scadere nella buccia di banana del “già visto”, ma il soprannome di Ciro che funge da titolo presto disvela il leit motiv di tutto il film: la morte, questo tema quasi sacrale che ricorre anche nei riusciti dialoghi, quella morte che aleggia tra questi personaggi da moderna MacBeth shakespeariana, la cui sete di potere, gloria e soldi facili li condanna, nel migliore dei casi, ad una violenta e prematura fine (ma “da eroe”, come amano consolarsi). Nel peggiore, ad un corpo con l’anima in decomposizione perenne, spettri di sé stessi, senza più passioni, sentimenti, sogni e affetti. Il bene non si incarna in nessuno di questi personaggi, ma aleggia sotto forma di pentimento e di lucida presa di coscienza del loro triste destino. 
È vivido quest’ultimo contrappasso nel romanzo criminale cucito addosso al personaggio di Ciro Di Marzio, che più volte ha sfiorato la morte e l’ha finanche ardentemente desiderata pur di non continuare a vivere la Gomorra che ci hanno fatto conoscere. “Un uomo solo, che non desidera più nulla”, come l’ha definito la sagace Vera, uno dei personaggi più riusciti del film. La morte emerge in tutte le dolorose e apparentemente inspiegabili reviviscenze di 
quella infanzia da cui ebbe inizio il suo scontato percorso criminale, ricordi che scopriremo poi essere il collante con il padre putativo ritrovato quaranta anni dopo a Riga. L’invidioso e pusillanime Bruno, colui che lo tradisce di nuovo, e a cui a questo giro Ciro non risparmia tutta la sua mai sopita sete di vendetta.
“‘A mort’ è ‘nu regal’ ‘ca nun’ t’ mirit’, vattenn’ “: è la mancata esecuzione “da eroe” il più crudele dei supplizi che Ciro infligge al fedifrago, l’inesorabile condanna ad una vita da miserabile che pesa più della morte stessa. 
Ciro è imprevedibile, immenso, appunto “immortale” come Napoli, l’unica città del mondo antico ancora in vita, sopravvissuta al Vesuvio, all’epidemia di colera, al terremoto e, in questo film capiamo bene perché, anche alla malavita. Perché Napoli è anche di tutti coloro che amano una esistenza degna di essere vissuta, lontani dagli ammalianti canti delle sirene del crimine. È forse proprio questo il potente messaggio che Marco D'Amore voleva trasmetterci quando ci invitò a parlare del “suo” film e a scrivere di “tutto quello che i giornalisti non dicono”.

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