Los Angeles, 2049. In una terra ridotta ad un'estesa superficie desertica, in cui le vie affollate di una folla brulicante sembrano essere state ripulite e riportate all'ordine, l'agente speciale K si occupa di ricercare ex-replicanti ribelli e ucciderli. In una delle sue missioni fa una scoperta sconcertante, che lo porterà ad andare oltre i suoi stessi limiti. Siamo in un'epoca in cui siamo ancora capaci di amare, oppure no? E ancora, qual è la differenza tra uomo e androide? Quale il limite oltre cui può spingersi l'umano? Queste le domande che più di tutti coinvolgevano lo spettatore nel primo Blade Runner, e che vengono riprese (in parte) in Blade Runner 2049, ancor più del fatto se l'agente Rick Deckard fosse o meno un replicante o un'umanoide. La frase, rimasta ormai leggendaria, "ne ho viste di cose che voi umani non potete nemmeno immaginare" diventa invece un quesito solipsistico ("chi sono e perché esisto?") in un sequel esteticamente raffinato che è un replicante più umano dell'umano. Un confine sempre più sottile divide infatti le due specie - umano e replicante - un limite che nei timori dei dominanti potrebbe anche sfumare lasciando il posto al caos, rendendo insufficiente e del tutto arbitraria l'identificazione tra i due nel possesso dell'anima, che sarebbe propria degli esseri umani. Ma non basta, si pone anche un'altra linea di frattura, più attuale: la relazione con i computer personali e gli assistenti virtuali. Anche se la differenza con l'uomo è a livello tecnico più chiara che per i replicanti, come spiegare il gesto di Joy, l'ologramma che si sacrifica per K? E quando, a questo punto, si può definire la libertà delle macchine, tema proprio della tradizione sci-fi, dato che queste ultime hanno piena consapevolezza di sé e della propria condizione al punto da accettare il giogo imposto dagli uomini? Ciò che conta in un sequel in cui si assottiglia il confine tra umani e replicanti è soprattutto la ricerca e la formulazione di un'identità. La differenza tra i due registi, Ridley Scott e Denis Villeneuve, risiede infine nello sguardo che pongono su questo mondo e sui loro personaggi. Mentre il primo poggiava su un pessimismo esistenziale e sociale, il secondo si muove alla ricerca di una speranza, nel "miracolo" della vita che si rinnova nonostante tutto, nella figura cristologica, sia essa umana o replicante non conta.
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